Circa una sessantina di anni fa, Lord Robert Byron, un giovane snob inglese, colto e raffinato, intraprese un lungo viaggio attraverso l'Oxiana, regione che si estende all'incirca tra l'odierno Iran, il Turkestan e l'Afghanistan. Il fiume Oxus, che oggi si chiama Amu Darya, sfocia nel mare d'Aral e segna il confine tra l'Afghanistan ed il Tagikistan. R. Byron nel libro "La Via per l'Oxiana" ci descrive i suoi viaggi (correvano gli anni Trenta) lungo la via meridionale: quella che porta da Teheran a Mashhad, Herat e poi a Kabul. La via settentrionale invece (procedendo da est verso ovest) da Kashgar nel Sinkiang punta a nord attraversando la catena del Tien Shan (Monti Celesti) e giunge nella vallata di Fergana. Da qui in avanti, mano a mano che si procede verso ovest, sempre più numerose si fanno le strade. Al di là di Tashkent, attraversando il Sir Darya (conosciuto nell'antichità come Iaxartes), e costeggiando il lago d'Aral si giunge al mar Caspio. E' questo l'itinerario seguito a suo tempo da Giovanni dal Piano dei Carpini. I viaggiatori che seguivano questo percorso giungevano al mar d'Azov, oppure puntavano verso il Caucaso e la Turchia. Era anche possibile seguire il corso dell'Amu Darya, l'Oxus, e fu senza dubbio questo l'itinerario prescelto da Matteo e Niccolò Polo. Da qui si poteva proseguire direttamente verso sudovest in direzione di Merv (a trenta km dall'odierna Mary in Turkmenistan) puntando a sud del mar Caspio per ricongiungersi con la via meridionale attraverso l'Iran che arriva a Baghdad. Solo nel III° secolo d.C., e sempre in termini abbastanza oscuri, gli autori cinesi cominciano ad accennare alla strada che passava a nord del Tien Shan e che costituisce la terza via d'accesso alla Cina per chi venga dall'Occidente. Le regioni attraversate corrispondevano alle zone oggi occupate dalle città di Frunze (Biskek) e Tashkent, lungo il corso del Sir Darya. Da Tashkent, oltrepassata Frunze, si raggiunge il lago di Issyk-kul, (le cui dimensioni e acque salmastre assomigliano più a quelle di un piccolo mare interno) e poi, superato il passo Torugart, si arriva a Kashgar nel Sinkiang cinese. Nel nostro frettoloso viaggio verso Oriente abbiamo cercato di seguire proprio questo itinerario.
L'attraversamento della parte di Via della Seta compresa tra l'Oxus e lo Iaxartes consiste di numerose tappe lungo quel vasto deserto che dal Caucaso alla Mongolia attraversa tutta l'Asia centrale a cavallo del 40° parallelo cambiando di volta in volta nome da Kara Kum a Kizil Kum a Taklamakan a Gobi. Sorvolo sui disagi e le inevitabili incongruenze implicite in un itinerario fatto di continui spostamenti che ha attraversato regioni dove i russi sono mal tollerati, la norma di sopravvivenza è l'illegalità, il consumismo di tipo occidentale praticamente inesistente, la tangente istituzionalizzata e l'arte di arrangiarsi eletta a sistema. La strada per il Torugart ne sfiora alcune, come il Tagikistan, dove l'assassinio di giornalisti è arrivato a 21 dall'inizio dell'anno, conseguenza di una guerra civile sotterranea tra un potere centrale militarmente sostenuto dai russi ed i molti potentati locali sul modello afghano che dalla mafia hanno mutuato stile e metodi. Altri sono i motivi per cui vale la pena venire sin qui, non compatibili con la pretesa di servizi esistenti solo in astratto. Le persone con cui si viene a contatto in queste regioni, siano esse uzbeki oppure kirghizi, mafiosi o concussori, autisti o poliziotti, richiedono da parte di coloro che si assumono i rischi di un viaggio attraverso luoghi insicuri, ospiti non invitati, un maggior sforzo di comprensione e tolleranza al posto dell'arrogante e sterile atteggiamento di chi per il solo fatto di pagare crede di potersi comportare come a casa propria.
Le tappe lungo la via settentrionale dell'Oxiana sono ancor oggi quelle delle carovane di un tempo: Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, Frunze, Issyk-kul. Le vicissitudini storiche delle ultime tre non hanno conosciuto gli sconvolgimenti di Bukhara e Samarcanda, tuttavia ben poco è sopravvissuto del loro passato di città carovaniere. A noi non sono rimaste che poche immagini di borghi e città d'aspetto moderno i cui abitanti sopravvivono in un'atmosfera opprimente da economia di guerra. Decisamente diversa e di gran lunga più affascinante è l'architettura di Khiva, Bukhara e Samarcanda.
Khiva prosperò come l'ultima in ordine di tempo di una schiera di capitali Corasmiadi, rimasta intatta grazie a un processo di selezione naturale, risparmiata dai capricci della storia e del mutevole corso dell'Amu Darya. Il fluire del tempo ha condotto Khiva ad una quieta decadenza, lasciando la città vecchia straordinariamente ben conservata. La prosperità dipendeva sia dalla favorevole posizione geografica (era l'ultima grande oasi sulla via carovaniera settentrionale per la Russia) sia dal commercio degli schiavi russi unito allo sfruttamento della loro forza lavoro. I motivi stessi dell’affermazione sono così diventati causa, al volgere del secolo, del suo inarrestabile declino. Il nucleo storico di Khiva è ora ridotto ad un guscio vuoto, monumento alla stasi grande quanto una città. Le strade di fango e la fortezza di Kunya Ark sono ancora le medesime di quando il bigotto Mohammed Amin Khan volle far costruire verso la metà del XIX° secolo il minareto più alto dell'Islam, il Kalta Minar. Il progetto venne sospeso alla sua morte e non fu mai completato per l'elevato costo ritenuto eccessivo dal suo erede. E' rimasto un tozzo moncherino, alto una trentina di metri e pesantemente restaurato, rivestito da vivaci piastrelle colorate dove domina il verde brillante. Più che un minareto Amin Khan ci ha lasciato un monumento all'ambizione frustrata.
Mentre il centro storico di Khiva è uno scrigno stipato con i più disparati elementi architettonici, un disabitato museo all'aperto, ciò che è rimasto dell'antica Samarcanda sotto i Timuridi (i successori di Tamerlano) rimanda ad un periodo unico al mondo in cui colore e forma raggiunsero un equilibrio perfetto, che ricorda la perfezione classica della forma nell’architettura occidentale, come il Partenone o il Tempietto di Bramante. Sotto i Timuridi la tecnica del mattone cotto rivestito di ceramica fu portata alla perfezione. La ricerca si sposta verso l’esatto equilibrio tra decorazione e struttura. Con Tamerlano si accentua la riduzione delle dimensioni dei motivi geometrici della decorazione delle maioliche di pari passo con l’aumentare delle dimensioni degli edifici. La grande moschea di Bibi Khanym, da lui voluta per essere la più grande della capitale, Samarcanda, nonché del mondo islamico, è un esempio di tale tendenza. Oggi è parzialmente crollata, vittima del suo stesso gigantismo. La magnificenza, quasi la megalomania nelle dimensioni e nella ricchezza decorativa tradiscono il gusto di Timur per la grandiosità, l’aspetto celebrativo e la ricerca dell’effetto scenografico, ottenuto con l’uso di mattoni invetriati alternati a mattoni opachi e a mosaici di ceramica policroma come nella grande mole azzurra a nervature della cupola del mausoleo di Gur Emir, la sua tomba. Ulug Beg, nipote di Tamerlano, fece erigere in città parecchi edifici. Nel XVII° secolo sull'area del caravanserraglio fu eretta la madrasa Tillia Kari (la Dorata) alla cui destra pochi anni prima era stata edificata quella di Chir Dorr (delle Tigri) di fronte a cui sorge la madrasa che porta il nome dello stesso Ulug Beg. Tutte e tre sono rivestite da maioliche turchesi, gialle e verdi in un tripudio policromo che ha attraversato indenne i secoli, meglio noto come Piazza Registan, o "Il Registan" tout court. Le linee che catturano maggiormente l'attenzione in questa grande scenografia teatrale all'aperto sono le curve asimmetriche che il tempo ha imposto alle facciate dei madrasa che racchiudono la piazza su tre lati, oltre che ai quattro minareti turchesi, non più verticali a guisa di frecce puntate verso lo zenit a maggior gloria di dio e del profeta (nonché incombente monito sui fedeli), ma ricurvi come scimitarre spezzate, prospettiva che conferisce un tocco di kitsch all'imponenza del complesso.
Bukhara amministrativamente fa parte dell'Uzbekistan ma l'etnia e la lingua sono tagike, simili a quelle afghane. La religione è islamica, anche se il fondamentalismo è meno accentuato che presso i loro vicini meridionali. La città, che celebrerà il 2600° genetliaco dalla fondazione nel marzo prossimo, deriva probabilmente il nome dal sanscrito vihara (monastero, luogo di preghiera), oppure dal farsi bukhar (sorgente di conoscenza). E di sorgenti, o quantomeno di Khauz (canali), Bukhara ne aveva davvero tanti. Progettati dagli architetti persiani per portare acqua e vita in un'oasi in mezzo al deserto del Kizil Kum sono stati progressivamente eliminati dall’amministrazione sovietica, che al posto dell’antica rete idrica di canali ha costruito un moderno acquedotto attraverso il deserto. Oltre alle malattie endemiche sono così scomparse dal 1985 anche le cicogne, i cui grandi nidi disabitati sono ancora ben visibili sulle cupole delle moschee, in vetta ai minareti e sugli alberi più alti. La delusione che l’aspetto della città può lasciare all'arrivo, quando emerge dalle sabbie mostrandosi in una sbiadita tonalità kaki perfettamente mimetizzata nel deserto, è ampiamente compensata dalla visita di uno dei pochi centri storici dell'Asia centrale rimasti intatti ed ancora abitati. Là dove Samarcanda luccica abbagliante di maioliche turchesi a Bukhara le vecchie strade delimitano una concentrazione unica di stili che coprono oltre un millennio di storia, di fronte ai quali i due secoli scarsi di edilizia intensiva da parte dei megalomani epigoni di Samarcanda sembrano poca cosa. Nella piazza di Lab-i-Khauz, in pieno centro, è ancora possibile sedersi accanto a vecchi barbuti col turbante e sorbire un tè in loro compagnia, accovacciati fianco a fianco sui caratteristici divani-letto davanti alla vasca del XVII° secolo dai bordi in pietra sbrecciata dal tempo, all'ombra dei gelsi secolari vecchi quanto la piazza. D´estate non è raro vedere queste acque color caffellatte popolate da bambini vocianti che si tuffano cercando refrigerio, unico modo per sfuggire al caldo torrido del meriggio. A poca distanza, le piazze ed i boulevards alberati della parte moderna riflettono una concezione imperiale dell'urbanistica fatta di grandi alberghi in decadenza frammisti ad enormi edifici amministrativi, il tutto disperso in ampi spazi vuoti e anonimi, pachidermi di cemento armato piantati sulle sabbie del deserto. Lo sforzo incessante del potere centrale sovietico sin dagli anni '20 è stato quello di sradicare l'Islam a tutti i costi convertendo le moschee da luogo di preghiera a magazzino, da ritrovo per i fedeli a rimessa di attrezzi per la coltivazione del cotone. Lo stato di incuria e abbandono durato per settant'anni in perfida sinergia con i violenti terremoti hanno inferto danni enormi al patrimonio architettonico, aprendo crepe nelle spesse pareti di mattoni che solo da pochi anni si sta cercando di consolidare. Quando era un potente khanato la città contava ben 360 moschee e 80 madrasa (collegi teologici islamici). Durante il dominio sovietico sono stati tutti chiusi, essendo proibite le adunanze pubbliche a fini religiosi e, ancor più, l’insegnamento e la propaganda della fede. L'effetto di questi sforzi, naturalmente, ha sortito a 70 anni di distanza esattamente l'opposto di ciò che si prefiggevano: anziché esser testimoni di un progressivo abbandono oggi si assiste ad una rinascita dell'Islam. I restauri procedono con scarsità di mezzi ma con tenace operosità come del resto si vede dai cantieri aperti presso le moschee e i madrasa. Questi ultimi riaprono per essere frequentati da giovani che studiano l’arabo e la legge islamica, ritrovando nuovo alimento per un'identità nazionale a lungo repressa, in un'unione ideale con i turbolenti vicini tagiki, virtualmente vanificando i propositi staliniani di dividere queste genti per meglio dominarle. Del passato pre-islamico di Bukhara sono rimaste solo alcune sezioni isolate delle antiche mura d’argilla, consumate dal tempo e danneggiate dagli uomini, simili a ciò che rimane dei bastioni di un castello di sabbia con l’avanzare della marea. Perché la marea dei mongoli di Temugin, detto Gengis Khan, passò di qui per davvero, cancellando ogni cosa al suo passaggio con due sole eccezioni. Una è rappresentata dal mausoleo di Ismail Samani, già antico quando il bisnonno di Temugin era ancora un bambino, l’altra è il minareto di Kalyan. L’elegante minareto rastremato sorge accanto all’omonima moschea ed è decorato soltanto dalla sobria geometria dei suoi mattoni di terracotta cementati con un impasto di argilla, paglia e latte di cammella. Questa magnifica struttura, (l’unica costruzione che Gengis volle risparmiare dall’olocausto della città nel 1220), era destinata a proiettare l’ombra di Dio sull’Oriente e sull’Occidente, monumento alla vittoria. L’essenza di Kalyan è squisitamente aerea, quella del Kalta Minar è puramente terrestre. I sette secoli che separano i due minareti includono l’apogeo e il declino della potenza dell’Islam in Asia centrale. L’uno simboleggia il trionfo e la forza, l’altro la sconfitta dei suoi rappresentanti in terra. Comunque la pensiate, benvenuti in Transoxiana.
Agosto 1994