Mi mancava, il Nepal. E non solo per le montagne, ma per la gente, cui la povertà non riesce a togliere il sorriso. E per l’incontenibile desiderio di libertà che si placa soltanto vagabondando lontano dalle strade trafficate, avanzando lungo sentieri che portano in aree remote ma non per questo prive di fascino e di sorprese. Così, assieme a Francesco, un compagno di viaggio che la pensa come me, sono tornato per visitare una valle raggiungibile esclusivamente con le gambe, per un tuffo in un passato che sta scomparendo. Tappa obbligata Kathmandu. Da salubre capitale di un regno sonnacchioso va sempre più assomigliando a una grande metropoli indiana con l’ineluttabile funesto corredo di traffico, inquinamento ed entropia sociale. La situazione è aggravata dal mix perverso d’inflazione recessiva, black-out elettrici, liti tra i partiti del governo di coalizione (vi ricorda qualcosa?), scioperi dei trasporti e pompe di carburante a secco. Trascorso in città il tempo strettamente indispensabile per richiedere i permessi e organizzare il viaggio, siamo partiti verso Besi Sahar, tropicale punto d’accesso al circuito dell’Annapurna. La crisi globale colpisce duro in Nepal. La recessione è causa di miseria in un paese già povero e importatore di materie prime, le cui principali fonti di valuta pregiata sono il turismo e le rimesse degli emigranti in cerca di fortuna nei paesi del Golfo. La crisi va anche ridisegnando le rotte del turismo. Sono aumentate le presenze dai paesi emergenti, i cosiddetti “brics”, ultimi arrivati nel club dei benestanti. In Nepal si affacciano volti nuovi, che fanno da contraltare agli europei in declino. Improbabili trekker russi tatuati, ricchi cinesi in cerca del visto per Macao (e i suoi casinò), pellegrini indiani in crescita esponenziale che si spostano con ogni mezzo disponibile ad eccezione delle proprie gambe, in cerca di crediti per la salvezza dell’anima presso i santuari di Muktinath e del Kailash. Gli ultimi arrivi puntellano la traballante economia del paese. Nel tentativo di incrementarli, il governo ha reso accessibili nuovi itinerari, tra cui la valle di Nar-Phu.
Preclusa agli stranieri sino al 2002, solo pochi vi ci sono sinora avventurati. Il villaggio di Phu è rimasto isolato fino alla metà degli anni ’80, quando i magri scambi avvenivano esclusivamente col Mustang attraverso passi percorribili per pochi mesi l’anno, come il Teri La e il glaciale Saribung La. Sinché fu aperto nella viva roccia l’attuale sentiero che unisce il villaggio di Koto, nel circuito dell’Annapurna, con Phu (180 abitanti, 4030 m, presso il confine tibetano). Nar e Phu sono gli unici due centri abitati dell’omonima valle, da sempre accesi rivali pur condividendo tradizione ed etnia tibetane. L’accesso a Nar-Phu è interdetto ai viaggiatori indipendenti: a causa della carenza di strutture ricettive come i lodge e la necessità di essere autonomi, anche per i pasti, è richiesto un permesso speciale e la guida di un’agenzia autorizzata. Da Koto, nei pressi di Chame, il sentiero imbocca una valle laterale, una gola impervia difesa da pareti strapiombanti alte duemila metri su ambo i lati. Il viottolo serpeggia da un lato all’altro della stretta valle, in questa parte ancora disabitata, in un continuo saliscendi sui fianchi boscosi per evitare le pareti verticali. Alcuni tratti sono intagliati nella roccia a picco sul torrente sottostante. Cinque ponti sospesi consentono di raggiungere Meta in cinque ore, verde alpeggio dove la vista si allarga, spaziando dal Pisang Peak al Kangaru Himal. Dai campi di Meta si scorgono per la prima volta in lontananza colossi ghiacciati come l’Himlung e il Nemjung, all’apparenza inaccessibili. Chi pensa che l’alpinismo di ricerca sia finito farebbe bene a risalire il ghiacciaio Lyapche da Kyang (tre ore da Meta) per recarsi nello sconosciuto Kechakyu Himal, dove una miriade di vette oltre i 6000 e 7000 m attendono persino un nome.
La stessa esistenza di Nar e di Phu è rimasta ignota al governo nepalese fino agli anni settanta, quando il sentiero che la unisce alla valle del Marsyangdi ancora non esisteva. Il salgemma tibetano era la merce di scambio, da barattare con farina d’orzo e pelli di capra di produzione locale, beni di consumo richiesti in Tibet. Ancor oggi, a Nar, si scambia sale contro farina, anche se tutto sta rapidamente cambiando. L’apertura del sentiero ha significato l’aumento dell’emigrazione maschile e il conseguente calo dell’allevamento. La diminuzione delle aree di pascolo è una delle cause del declino della popolazione di capre blu, scese da mille a ottocento esemplari nella sola area di Phu. Di conseguenza, il leopardo delle nevi, principale predatore delle capre, si sta avviando all’estinzione. Si calcola che attualmente ci siano dai quattro ai sei esemplari per un’area di mille chilometri quadrati. D’inverno l’intera valle si spopola e i 250 abitanti di Nar e i 180 di Phu si riducono a 40 e 10 rispettivamente. Le donne e i bambini scendono a Kathmandu per svernare in un clima più mite, affollandosi in minuscoli alloggi i cui affitti sono onerosi per chi è costretto a vivere di allevamento e di un’agricoltura di sussistenza a base di grano saraceno e patate.
In questa situazione si è inserita da pochissimi anni una nuova fonte di reddito, che sta sovvertendo radicalmente l’economia e la demografia di queste valli. Il responsabile è lo Yartsa Gumba, nome scientifico Ophiocordyceps sinensis, un fungo entomofilo assai richiesto dalla medicina tradizionale orientale. Pressoché sconosciuto in occidente, il valore commerciale dello Yartsa Gumba - nome tibetano per “erba estiva, verme invernale” - è oggi pari sulle piazze asiatiche alla metà di quello dell’oro. Negli ultimi anni è diventata la sostanza medicinale più cara del mondo. Il motivo sta nelle sue molteplici proprietà toniche, tra cui la fama di essere un potente “viagra” naturale. La genesi del fungo, dieci volte più costoso del tartufo, ha il gusto di una storia dell’orrore alla “Alien”. Tutto inizia dal bruco di una falena del genere Titarodes, che vive nel sottosuolo degli ambienti alpini erbosi sugli altipiani dell’Himalaya e del Tibet, a quote comprese trai 3500 e i 5000 metri, appena sotto il limite delle nevi. Il bruco passa cinque anni nel sottosuolo prima di diventare pupa, nutrendosi delle radici delle piante. Durante lo stadio larvale, in autunno, alcuni sfortunati insetti sono infestati sottoterra dalle spore di un fungo del genere ofiocordicipitacee. Il micelio del fungo colonizza gradualmente l’insetto, divorandoselo letteralmente dall’interno durante i mesi invernali. Ciò che ne resta è il corpo mummificato ridotto a un involucro. Prima che questo accada, in qualche modo, il fungo induce il bruco ad avvicinarsi alla superficie della sua tana. In primavera, dopo lo scioglimento delle nevi, lo Yartsa Gumba emerge dal suolo, spuntando dalla testa del bruco, ormai morto. Il corpo fruttifero si alza per 5-15 cm dal suolo ed è così che viene riconosciuto e raccolto.
Secondo una leggenda, la scoperta si deve ai pastori nepalesi e tibetani che suppergiù 1500 anni or sono notarono come in primavera gli yak e le capre al pascolo mostrassero un insolito vigore dopo aver mangiato un fungo simile a erba. Da questa osservazione alla sperimentazione umana il passo fu breve. La prima documentazione scritta delle proprietà del fungo si deve a Nyamnyi Dorje, un lama tibetano che si occupava di medicina intorno al 1450. Nel suo testo “Un oceano di qualità afrodisiache” descrive le virtù dello Yartsa Gumba come stimolante sessuale. Nel seguito altri studiosi tibetani descrissero le proprietà di guarigione di questo strano animale-pianta sinché, ai primi del ‘700 un prete gesuita di origine francese, Jean Baptiste Perennin, ospite alla corte dell’imperatore della Cina, lo descrisse per la prima volta in occidente. In tempi più recenti, l’attenzione si è calamitata sullo Yartsa Gumba quando due atlete cinesi ai giochi asiatici di Hiroshima nel 1994 fecero il record mondiale nella corsa sulla media e lunga distanza. Questa straordinaria performance suscitò sospetti e furono fatti test anti-doping senza peraltro trovare nulla d’irregolare. L’allenatore delle due, Ma Junren, sostenne con la stampa come il risultato fosse da attribuire all’assunzione di dosi giornaliere di Yartsa Gumba. Da allora, e in particolare negli ultimissimi anni, la crescita della domanda è stata esponenziale. Come conseguenza il prezzo è progressivamente lievitato, sino al primato attuale. Nel 1992 un chilogrammo di prodotto costava 7 $, oggi 20.000 $ o più. E’ un fatto che in Cina, tra i nuovi ricchi e potenti, lo Yartsa Gumba sia diventato uno status symbol più dello champagne nelle “cene eleganti” o come regalo di prestigio. Non esistono statistiche ufficiali precise, anche se si stima che la produzione annuale superi le cento tonnellate per un giro d’affari superiore al miliardo di dollari, quasi quanto la decima parte del PIL del Nepal. Non male per un “modesto” funghetto.
L’aumento dei prezzi è dovuto sia alla crescente domanda cinese ma anche al progressivo depauperamento delle riserve naturali, dato che l’eccessivo raccolto ne sta provocando la diminuzione. Per compensarlo, le aree di ricerca si sono spostate dal tradizionale Tibet al Nepal, al Sikkim, al Bhutan, sempre più in alto. Le economie rurali, come accade nelle alte valli nepalesi, escono devastate dall’iniezione di così ingenti quantità di danaro. La cultura che ha nello yak il suo perno, sopravvissuta per secoli, ha iniziato a dissolversi in questo scontro col mercato globale. Tra le cause, il fatto che una stagione di duro lavoro può fruttare a un raccoglitore di Yartsa Gumba da cinque a dieci volte il salario medio annuo. Di conseguenza, in primavera, interi villaggi si svuotano e sempre meno uomini rimangono a lavorare i campi o a portare le greggi al pascolo, come ho avuto modo di costatare a Nar e nelle aree sopra Manang, dove gruppi di cercatori battono a tappeto i fianchi delle montagne di fronte al Thurung phedi. Con qualsiasi tempo. Gli uomini adulti trovano più redditizio lasciare i villaggi per trasferirsi in quota prima dell’arrivo del monsone, al riparo di teli di plastica multicolori arrangiati a guisa di tende, per essere più vicini ai luoghi di raccolta, di anno in anno più impervi e rischiosi.
Il pericolo per i raccoglitori non è dato solo dall’ambiente montano dove si raccoglie il pregiato fungo (le valanghe ogni anno esigono un pesante tributo in vite umane), ma dalla violenza scatenata dell’avidità e dalla corruzione a tutti i livelli a servizio dal fiorente contrabbando per evitare i canali governativi. Non tutti infatti possono andare in cerca dello Yartsa Gumba. Solo gli abitanti delle valli in cui cresce sono autorizzati e solo per la loro valle. Le pene sono severe ma il deterrente è costituito non tanto dalla legge, quanto dagli stessi valligiani che, sentendosi minacciati nella loro principale fonte di reddito, hanno a volte impiegato metodi spicci e brutali per proteggersi da chi sconfina. E’ cronaca recente la faida che a Nar nel 2009 ha visto scomparire nel nulla sette cercatori abusivi. La polizia ha ritrovato i resti solo di alcuni, smembrati e gettati in un profondo canalone. L’inchiesta che ne è seguita si è conclusa da poco e ha portato a diciannove condanne tra gli abitanti di Nar per complicità oltre ad alcuni ergastoli tra i colpevoli identificati e rei confessi.
A questo punto sorge spontanea la domanda: accanto alle sue proprietà toniche e ricostituenti, il fungo Yartsa Gumba funziona davvero come afrodisiaco? La risposta è controversa. La sua reputazione è più che altro dovuta a resoconti personali di utilizzatori, anche se non mancano studi scientifici seri, come quello della facoltà di medicina dell’università di Stanford che ha trovato un aumento di 17-chetosteroidi nell’urina di maschi che assumevano dosi giornaliere di Yartsa Gumba, fatto indicativo dell’aumentata produzione di androgeni e altri ormoni. D’altra parte, da un test in cieco su soggetti umani, è risultato che il 65% dei consumatori di Yartsa Gumba avevano avuto un incremento dell’attività sessuale. Da buon San Tommaso me ne sono procurato uno, acquistandolo in loco. Risultati: nessuno. Ma forse è dovuto al fatto che la dose raccomandata è di uno-due al giorno, per almeno una settimana. Trattandosi di un vegetale caro quanto l’oro, ho soprasseduto…viva la chimica!
Maggio 2012