Aperta al turismo non islamico da un paio d’anni appena, in pratica accessibile da molto meno causa pandemia, l’Arabia Saudita è una nazione tutta da scoprire. Abbiamo iniziato a farlo con questo viaggio, la cui aspirazione era mettere maggiormente a fuoco un regno lontano, una monarchia assoluta senza parlamento da noi conosciuta solo per luoghi comuni o per iperboli. Sotto la guida dell’attuale capo del governo, il principe Mohammad bin Salman, in breve MbS, (“bin” sta per “figlio di”, in questo caso figlio di re Salman) ha avuto inizio un’inedita stagione di aperture, sintetizzata nel logo Saudi Vision 2030. L’ambizioso piano si basa su riforme giuridiche e dei servizi (sanità, istruzione, attività ricreative), senza trascurare le forze armate da cui dipende la sicurezza interna oltre che la stabilità dei mercati energetici globali. Il più grande fondo sovrano del mondo di cui il principe MbS è presidente (tra le controllate, la Saudi Aramco, in parte privatizzata), fornisce liquidità agli investimenti nonché al Vision Fund, creato per sviluppare le infrastrutture e le costruzioni, sul modello di Dubai. L’obiettivo è crescere più dei vicini Emirati, diversificando e creando nuove opportunità di lavoro per ridurre la dipendenza dell'Arabia Saudita dal petrolio. L’attuale sistema giuridico è fondato sulla Sharia e su una rigida interpretazione wahhabita del Corano di cui re Salman è al tempo stesso custode e garante. Conciliare lo status quo con le aperture e con certi principi democratici, come quello dei diritti - delle donne in particolare -, non sarà facile. La recentissima concessione della patente di guida è solo la punta di un iceberg di consuetudini che dovranno cambiare, se il regno vuole proporsi come destinazione globale affidabile in un mondo sempre più finanziarizzato. Nei nostri dieci giorni di visita, graditi ospiti, abbiamo potuto constatare come il paese sia un unico grande cantiere, esteso ai centri storici, ai siti Unesco, ai musei e ai servizi. Abbiamo anche toccato contraddizioni la cui soluzione richiederà, probabilmente, ben più di un paio di lustri.
Ore tre del mattino. Lo sbarco in città avviene nel cuore di una notte afosa, in un aeroporto modernissimo, ossatura d’acciaio e pelle di cristallo e tensostrutture. Abbastanza affollato, vista l’ora. Ma ci troviamo nell’hub aeroportuale più vicino a La Mecca, principale città santa dell’Islam nonché meta dell’Hajj, il pellegrinaggio che ogni buon musulmano deve compiere almeno una volta nella vita. Una nuovissima navetta copre i 70 km di distanza tra l’aerostazione e La Mecca in pochi minuti, ma a noi è preclusa. Le formalità all’arrivo sorprendono per la scorrevolezza, soprattutto in tempo di Covid: le funzionarie addette ai controlli dei certificati vaccinali, rigorosamente con il niqab, sono disposte simmetricamente ai lati di un ampio corridoio, ne conto almeno una decina. Gli accertamenti sono veloci. Segue il controllo del visto elettronico, anche qui rapido e indolore: la poliziotta, velata e paziente, mi prende le impronte senza scomporsi anche quando io bisticcio col lettore. Un po’ di detergente spruzzato sulla punta delle dita et voilà, per grazia di re Salmān Āl Saʿūd ho diritto a percorrere, da turista e per un massimo di novanta giorni, il regno d’Arabia in lungo e in largo. Nel frattempo, la coda al chiosco della Mobily per le sim locali si è allungata a una decina di persone. Troppe, per sperare di riconfigurare tutti i nostri cellulari prima dell’alba, più utile correre in hotel per cercare di riposare qualche ora. L’albergo in centro non è male, alla fine risulterà il migliore del viaggio. All’arrivo, un gruppo in partenza prende il nostro posto sull’auto dell’agenzia, direzione aeroporto. Gente che va, gente che viene. Il gentile impiegato della reception ci affida le chiavi elettroniche delle camere con un sorriso e un benvenuto in buon inglese. Faccio appena in tempo a rispondere shukran (grazie in arabo) prima di salire in camera e buttarmi sul letto, sfinito: l’età avanza, subdola ma inesorabile. Il sole cuoce già i tetti piatti di Gedda quando, sazi e operativi, ci dirigiamo in taxi verso il centro storico della città, sito Unesco. Nel nucleo antico, in realtà di antico c’è poco o nulla, risalendo al 1881 uno dei più vecchi edifici, casa Naseef. Qui visse il padre fondatore del paese, Abdul Aziz, nel non lontanissimo 1925. Tutte le case storiche di quell’epoca, contraddistinte dai caratteristici balconi chiusi e aggettanti in legno sono o in rovina o in restauro. Delle precedenti costruzioni in adobe e fango non è rimasta traccia. Al loro posto, la visione del principe MbS sta prendendo forma sulla Corniche, una bella passeggiata lunga una trentina di chilometri che costeggia il Mar Rosso. Il lungomare è ora dominato da una parata di torri, grattacieli dalle forme avveniristiche appena ultimati o in costruzione con al centro un nuovissimo circuito di Formula 1. È un luogo a misura d’auto più che da percorrere a piedi, per via delle dimensioni. I nomadi arabi si sono infine sedentarizzati e aspirano a lasciare la loro impronta sulla Storia scalando il cielo. Lasciamo la seconda metropoli d’Arabia il giorno seguente, prima dell’alba, senza rimpianti.
Atterriamo a Tabuk sul far del giorno. Nell’antichità era un’importante oasi di transito lungo la via carovaniera delle spezie. Oggi è una piccola città di provincia, snodo dei traffici su gomma verso la Giordania. Un autista dell’agenzia, tale Abdul l’egiziano, ci attende fuori dallo scalo. Puntuale e cortese. Purtroppo non sa quasi una parola d’inglese e non ha la minima idea di dove si trovi l’acrocoro di Hisma, tappa odierna: una manciata di luoghi notevoli identificati solo dalle coordinate su una mappa elettronica. Inizio a preoccuparmi perché si tratta di guidare fuoripista in un altopiano esteso migliaia di chilometri quadrati, solcato da piste sabbiose che si biforcano in ogni direzione. Questi luoghi non sono (ancora) frequentati dal turismo e molti locali non comprendono neppure perché mai uno straniero debba darsi tanta pena per vedere il nulla. Dopo un colloquio chiarificatore col vice dell’agenzia, appurato che a noi serve una guida oltre che un driver, aspettiamo il rimpiazzo in un autentico luogo da far (w)est: il villaggio di Bjeddah. Tre case, una moschea e uno spaccio con annesso distributore di benzina alla fine della strada asfaltata, sullo sfondo di montagne rosse lavorate dal tempo e dal vento. Oltre la pista ci attende il vuoto cremisi e proteiforme dell’altipiano di Hisma, propaggine sud del Wadi Rum giordano. Constatiamo come l’Arabia non sia solo uno scatolone di sabbia, ma un paesaggio variegato fatto di profonde valli verdeggianti, catene montuose di arenarie traforate in mille forme, archi, canyon così stretti che per attraversarli occorre trattenere il respiro (non è un’esagerazione!), interminabili chilometri di costa disabitata sullo sfondo di un mare blu cobalto. Il sole è già alto quando Awad, la guida, ci raggiunge. Nel frangente, constatiamo che, anche a queste latitudini, c’è sempre qualcuno più a meridione di qualcun altro. Awad è saudita, Abdul è un immigrato. Il secondo subisce senza reagire un’immeritata lavata di capo dall’indigeno. Awad sarà però anche la nostra salvezza: non solo perché ci condurrà per tre giorni con sicurezza attraverso le piste, ma soprattutto perché con la sua ospitalità e l’invito a cena nella sua casa di città ci permetterà di gettare un fuggevole sguardo sullo stile di vita di una famiglia saudita. È un uomo affascinante, sulla cinquantina, un beduino di città, tradizionalista e un po’ marpione, uso ai contatti con gli stranieri per via del suo lavoro ma che non ha mai viaggiato molto fuori dal suo paese. Ha undici figli, un passato in aeronautica e un presente come guida. Vive tra la casa di città, che divide con la prima moglie e i suoi sette figli e quella di campagna dove sta la seconda moglie, di vent’anni più giovane, e i suoi quattro figli. La casa di Tabuk è una bella villa di tre piani, isolata dalla strada da un altissimo muro di cinta, nello stile arabo. La visitiamo con invidia: pochi di noi se la potrebbero permettere. A quanto pare il re è assai generoso verso chi lo ha servito nelle forze armate. D’altra parte, mantenere due famiglie numerose deve essere dispendioso e Awad arrotonda come guida free lance. Io, in quanto maschio, sono ammesso solo al piano terra nella zona ospiti. Alle donne del gruppo invece sarà concesso entrare anche nella zona “ospiti femminili”, che mi viene raccontata come solo un po’ meno opulenta del salotto degli uomini. Qui siamo fatti accomodare su quattro ampi divani di alcantara grigio perla con finiture in oro. Davanti a noi tavolini di diversa altezza su cui ci viene servito un caffè moka bianco con datteri. Non vedremo mai la padrona di casa, che forse non è poi così curiosa di conoscerci come lo siamo noi. In compenso Awad ci presenta le due figlie più piccole, vivaci e curiose. Intraprendiamo una surreale conversazione arabo-italiano grazie a google traduttore. Riusciamo a capire che le due ragazzine hanno una sette e l’altra undici anni, che sono in dad, costrette a seguire le lezioni dal pc. A loro volta ci hanno chiesto quanti figli avessimo: il caso ha voluto che nessuno nel nostro piccolo gruppo ne avesse, e questa risposta le ha sconcertate. Riuniti per cena, seduti a terra sui tappeti a mangiare riso con verdure e stufato di cammello, tutti insieme servendosi con le mani da un unico grande piatto com’è nel costume tradizionale beduino, non può che farmi pensare all’arbitrarietà e alla relatività degli umani costumi, con o senza pandemia.
Raggiugiamo Hegra con le sue tombe lihyanite e nabatee dopo un lungo periplo del golfo di Aqaba, passando da al-Bad (sito di Madyan) e poi percorrendo il canyon di Wadi Disah. Hegra è il principale sito Unesco d’Arabia e si trova nei pressi di al-Ula. Conosciuto dagli arabi come al-Hijr (Madā'in Sālih) è talmente frequentato da aver imposto procedure molto rigide per la visita. Occorre sempre prenotare e scegliere una fascia oraria. Il tour si fa su di un pullman gran turismo da cinquanta posti e non prevede altre soste all’infuori delle tre previste dal programma. Al punto di ritrovo, chiamato non senza involontaria ironia “Winter Park”, scopriamo che i nostri voucher riportano orari sbagliati. Otteniamo la modifica per un ingresso successivo grazie all’intercessione della controllora, una giovane saudita dal portamento nobile e riservato i cui luminosi occhi color verde smeraldo mi ricordano la famosa foto della ragazza afgana pubblicata nel 1985 sul National Geographic. Durante il giro del sito siamo costantemente accompagnati da due archeologhe saudite, che rispondono di buon grado alle nostre domande in un ottimo inglese. Smaltita la delusione per aver potuto vedere così poco di un’area tanto affascinante quanto sterminata (ma occorre tener presente che la durata della visita è calibrata sul turista medio, per il quale, a occhio e croce, due ore di tombe bastano e avanzano) ci consoliamo con la visita della città vecchia di al-Ula, perlomeno di ciò che ne resta. Dedan è il nome antico dell’oasi di al-Ula come pure quello di un regno che dominò la maggior parte dell’Arabia nordoccidentale durante il VII secolo Avanti Cristo. Ai dedaniti successero i liyaniti che a loro volta vennero sottomessi dai nabatei (quelli di Petra, per intenderci) nel II secolo a.C. I romani infine conquistarono Petra e così acquisirono il controllo della via dell’incenso che passava da quest’oasi. Le tombe monumentali di Hegra sono quanto ci è rimasto dell’opulenza passata, frutto del 25% di dazio che i locali esigevano dai mercanti di passaggio. Caduto l’Impero, le vie divennero insicure, i commerci s’inaridirono e l’oasi decadde per molti secoli per rinascere infine in epoca islamica come tappa dei pellegrini diretti alla Mecca. La città vecchia sorge su di un’altura per proteggersi dalle inondazioni ed è difesa dalla montagna. Su tutto domina il forte. Le rovine si dividono in due parti: una città invernale, murata a scopi difensivi, e l’altra estiva, aperta, sparpagliata tra le palme dell’oasi. Le case sono a due piani, col piano terra in pietra adibito a reception e magazzino mentre il primo piano, in mattoni di fango e legno, fungeva d’abitazione. Le case sono costruite strette le une attorno alle altre, formando un muro continuo verso l’esterno, interrotto solo dalle 14 porte che erano aperte solo dall’alba al tramonto. L’interno è un dedalo si strette stradine e passaggi, dov’è facile perdersi. La visita guidata ripercorre alcuni di questi vicoli, quelli restaurati, perché ormai da oltre mezzo secolo tutte le città vecchie d’Arabia sono state abbandonate in favore di moderni centri creati dal nulla anche a chilometri di distanza, con strade pensate per le auto. La città vecchia di al-Ula non fa eccezione ed è stata restaurata solo in parte, a fini turistici, perlopiù lungo l’asse principale. Possiamo solo immaginare quali dovessero essere le condizioni di vita qui sino alla metà del secolo scorso in mancanza di un acquedotto, di fognature ed elettricità. Questa era la situazione di tutto il paese, inclusi centri come Tabuk, al-Ula, Hail, Gedda e Riad.
L’autista che ci ha condotti da al-Ula ad Hail è un trentenne di nome Khaled: l’esatto opposto di Awad. Khaled è giovane, riservato, educato e istruito. Ci racconta di aver studiato per quasi un anno in Inghilterra grazie a una borsa di studio finanziata dal governo. Ha una sorella, che come lui è stata all’estero e si è laureata. Khaled ha la stessa età del principe MbS e incarna il futuro dell’Arabia, almeno tanto quanto la generazione di Awad ne personifica il passato. Ad Hail andiamo a visitare il museo locale, situato nei pressi dell’ingresso del forte. Escluso il centralissimo forte ottomano di A'arif, che risale a metà Ottocento e che controllava la strada d’accesso, non resta nulla d’antico in città. Le vecchie case, oggi abbandonate e in rovina, erano fatte di fango: sono durate secoli solo perché continuamente rinnovate dagli abitanti. Hanno ancora dei proprietari, che conservano i terreni magari con l’idea di costruirci sopra una casa moderna. È la mancanza di un vero passato la prima cosa che notiamo visitando i piccoli musei di provincia come quello di Hail. Sono costituiti da uno zibaldone di oggetti di modernariato, dai primi stereo alle macchine da scrivere Olivetti, dai televisori a tubo catodico ai piatti di plastica. Per i più anziani di noi è stato come essere riportati all’infanzia, con marchi e loghi di oggetti che credevamo perduti per sempre tra gli anfratti della memoria. Se lo scopo di un museo è riportare alla luce il passato, questo ha avuto il pregio di riportarci al nostro personale. Lasciamo la città di buon mattino, diretti alla vicina oasi di Jubbah per ammirarne i graffiti pre e proto storici. L’archeologo che ci accompagna ci spiega come quella che oggi è un’oasi fosse millenni fa un lago, popolato da specie scomparse ma che vediamo raffigurate nelle incisioni rupestri. Riconosciamo cammelli selvatici, distinguibili per via dei ciuffi di pelo sulla gobba, cammelli domesticati e cammelli cavalcati da figure armate di arco e frecce, un re in atteggiamento ieratico accanto a buoi dalle lunghe corna, leoni, stambecchi e infine l’effigie di un carro trainato da una coppia di cavalli. È un fumetto inciso nella pietra da molte mani nel corso nel tempo, che tramanda nei secoli la vita dell’epoca. Per questo il sito è stato riconosciuto patrimonio dell’umanità. L’antico lago, circondato dal deserto ma ricco di selvaggina, acqua e alberi da frutto, doveva essere quanto di più vicino all’Eden le popolazioni antiche potessero immaginare. La visita di Jubbah ci lascia un piacevole ricordo: siamo tra i primi turisti occidentali a metter piede nell’oasi e come tali ricercati al pari dei primi viaggiatori del secolo scorso. Siamo invitati nelle case, ci è offerto il caffè bianco con datteri, siamo coccolati, intervistati e fotografati come fossimo star, senza alcuna intenzione apparente di venderci oppure di ottenere da noi qualcosa. Non penso siano rimasti molti luoghi dove a un turista capita questo, ma non durerà.
Il trasferimento da Hail a Riad è avvenuto in treno. Rapido e veloce, il convoglio dispone di moderne carrozze dotate di wi-fi. Incarna perfettamente la visione saudita del futuro: la stazione sembra un’astronave e sorge in mezzo al nulla, venti chilometri fuori Hail. Assomiglia vagamente a un aeroporto, con tanto di controlli, barriere e check-in dei bagagli. La riconsegna avviene all’arrivo nella stazione di Riad, su di un nastro trasportatore. L’alta velocità su rotaia è l’ultima arrivata in Arabia Saudita e per essa, a quanto pare, non c’è spazio nei centri storici. Riad è la capitale della famiglia Al Saud, (per la precisione si stabilirono nella vicina al-Dirʿiyya, attualmente inaccessibile a causa dei lavori di riqualificazione). La megalopoli è cresciuta a dismisura negli ultimi anni, grazie all’immigrazione dai Paesi Arabi e dell’Asia. È una città nuovissima e ipermoderna, anche se non ovunque. Autostrade urbane a quattro corsie per senso di marcia sono le arterie che incanalano un flusso ininterrotto di veicoli. Il tassista che ci porta in hotel spiega che dobbiamo assolutamente vedere il gigantesco luna park, l’ultimo grido in fatto di attrazioni in città. Ma il nostro vero obiettivo è il museo nazionale, illuminante per comprendere un po’ meglio il passato e il presente di questo vasto paese. L’edificio è enorme, su due piani. Deserto, a parte noi. L’ingresso è gratuito. L’ambizione del museo è quella di raccontare tutta la storia, dall’inizio del Mondo ai giorni nostri, declinata secondo i canoni dell’Islam: le didascalie esplicative sono molto chiare in proposito. “La Terra, secondo la scienza, fu creata da Allah circa 4,5 miliardi di anni fa” e ancora “Ciascuna pianta e animale è stato creato da Allah per uno scopo e in un luogo ben definito sul pianeta”. Scienza e religione qui appaiono essere tutt’uno. Per una separazione consensuale, citofonare Galileo Galilei. Terminata la visita, decidiamo di fare a piedi i due chilometri che separano il museo nazionale dalla fortezza di Masmak, edificio storico da poco restaurato nel cuore della vecchia Riad. Il cammino si fa più tortuoso del previsto per via dei lavori della nuova metropolitana e così ci ritroviamo ad attraversare un quartiere, centrale ma degradato, popolato esclusivamente da immigrati bengalesi, assai diverso dai rutilanti grattacieli e dai centri commerciali che si affacciano lungo la King Fahd Road. Scopriamo così per caso dove e come vive un’importante comunità della forza lavoro straniera, salariati che sostengono lo sviluppo del paese col sudore della fronte. Pochi diritti, molto lavoro, paghe basse. Torniamo in aeroporto nella notte, con un taxi prenotato via cellulare grazie all’app Uber, straordinariamente rapida ed efficiente in tutta l’Arabia nonostante siano le due del mattino. Non a caso il fondo sovrano saudita ha investito su Uber un bel po’ di miliardi, non tutti rientrati. Il tassista è un giovane immigrato di seconda generazione, amante dell’Italia (che conosce principalmente grazie al calcio) ed è talmente felice di averci a bordo del suo taxi, ospiti inattesi, che videochiama in diretta la sua ragazza e fa le presentazioni. Sullo sfondo la musica pop di Rihanna. La fidanzata sta in quella che sembra una stanza d’appartamento e non pare preoccuparsi più di tanto nel farsi vedere svelata da sconosciuti. Forse non è esattamente saudita, ma è meglio non chiedere. I costumi stanno cambiando più velocemente di quanto sembrerebbe possibile, almeno tra i ragazzi, almeno nel privato.
Cosa resta del nostro breve soggiorno? Sopra tutto, domina l’impressione di un paese giovane, quasi privo di tracce del proprio passato, proiettato verso un futuro globale, dimentico del presente. Dove porterà questo slancio non è dato sapere. Di certo i faraonici piani di sviluppo di Sharma, tranquilla località sul Mar Rosso dirimpettaia di Sharm el-Sheikh, tracciano una direzione. Awad ci ha mostrato sul suo cellulare i rendering dell’area, progetti che fanno impallidire i lavori in corso sulla corniche di Gedda. Siamo felici di averla vista così com’è ora, incontaminata. Al momento a Sharma i turisti non possono pernottare. Sembra vi risieda re Salman in persona, assieme alla sua corte e a una nutrita guardia personale. Alle turbolenze metropolitane e agl’intrighi di Riad il sovrano sembra aver delegato il principe Mohammad e preferisce, come noi, la profondissima quiete del Mar Rosso… perché naufragar è dolce in questo mare.
Dicembre 2021
1. Lindsay Brown, Stuart Butler – Arabia Saudita – travel guide – Guida in inglese della Lonely Planet, 376 pag., 63 pag. a colori - 10 Ed. Gen. 2016, € 18,95
2. aa vv et al. – Oman, Emirati e Arabia Saudita - travel guide – Guida in inglese della Lonely Planet € 7,50.
3. AA.VV. – Limes - Rivista Italiana di Geopolitica - Arabia (non solo) saudita – N° 3/2017 - Gruppo Editoriale l'Espresso - Roma € 15,00