“I fiumi cristallini dei sacri Kherlen, Onon e Tuul,
Ruscelli, rivi e sorgenti che portano benessere a tutto il mio popolo,
I laghi blu di Khövsgöl, Uvs e Buir, profondi e vasti,
Fiumi e laghi ove uomini e animali si dissetano;
Questa, questa è la mia terra natia,
Paese amato, la mia Mongolia.”
D. Natsagdorj “Terra natia”
Ci sono, a Venezia, tre luoghi magici e nascosti… Quando i veneziani sono stanchi delle autorità costituite, vanno in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie”. Così inizia il romanzo di Hugo Pratt, Corte Sconta detta Arcana, poetica e avvincente saga, intreccio di storia e fantasia, avventura e sogno, vittoria e sconfitta ambientata ai confini di Siberia, Manciuria
e Mongolia dove si scontrarono, nel 1918, controrivoluzionari russi bianchi, invasori giapponesi e signori della guerra cinesi. Da questo ribollire di intessi contrapposti, di conflitti e violenze a ridosso dei dieci giorni che sconvolsero il mondo, esplose l'anelito all'indipendenza che ha contribuito in maniera decisiva alla fondazione del moderno Stato Mongolo. La nostra gita ha ripercorso questi luoghi, teatro della più bella fra le avventure di Corto Maltese, l'alter ego di H. Pratt, catapultato dal dedalo delle calli veneziane al labirinto di una steppa dove tutte le direzioni sembrano equivalersi. Venezia è, da sempre, un ottimo punto di partenza per i viaggi nella grande Asia: una porta dell'Europa aperta sull'Oriente. L'altipiano mongolo è un vasto mare di giada incuneato tra la gelida taiga e le depressioni infuocate del "cuore pulsante dell'Asia", secondo la definizione coniata da Sven Hedin. Le praterie, piatte e smisurate, generano miraggi esattamente come le sabbie del deserto. L'erba della steppa, proiettata sull'orizzonte lontano, pare mutarsi in un liquido tremolante entro cui si specchiano capovolte remote immagini di montagne, riflessi di arcipelaghi immaginari. E' un incantesimo che si spezza e rinnova senza fine mentre, viaggiando via terra, ci si avvicina sempre più all'inafferrabile, senza mai giungere in nessun posto. Per questo abbiamo iniziato dai freddi binari d'acciaio grigio della Transiberiana, ché la rapidità dell'aereo mal si presta alle pause e all'osservazione. Avanti in treno fin dove è possibile, fino a Urga, oggi Ulan Bataar, e poi in fuoristrada attraverso le amplissime pianure, percorrendo con l'aiuto del satellitare le piste evanescenti della Mongolia Esterna. Il nostro itinerario ne ha seguito il perimetro piegando verso est e poi a sud, sino ai grandi erg (els) di dune d'argento del Gobi, incastonati e custoditi da catene parallele di brulle montagne color cenere. Una deviazione all'interno ci ha infine condotti da Karakorum alle dolci e boscose colline in prossimità del confine siberiano.
Le immense praterie della Mongolia sono gremite da una moltitudine di quadrupedi, dagli yak alle gazzelle, dai cammelli bactriani agli asini selvatici, dai piccoli roditori come i citelli e i pikas alle marmotte dalle guance paffute oltre che da un'infinita varietà di uccelli: damigelle, gazze, falchi, avvoltoi e aquile. Ma questi animali, di per sé, non appaiono abbastanza esotici da giustificare un viaggio lungo e disagevole attraverso regioni amplissime. La geografia del paese appare spesso monotona, eccettuate le dimensioni colossali e la sterminata vastità della steppa. A ben guardare, non v'è nulla d’eclatante per un animo la cui capacità di stupirsi sia stata già in parte anestetizzata dai ricordi di altri mirabili scenari. Gli archeologi faticano non poco a ricostruire il passato del nomade popolo dei mongoli o, come erano chiamati dagli antichi cinesi, "gli abitanti del Paese dei lunghi giorni e delle bianche montagne". Ciò è dovuto in parte alla mancanza di testimonianze dirette, perché la scrittura è stata introdotta per decreto dai Gran Khan solo in tempi successivi alle conquiste di Gengiz, nel tentativo di conferire una struttura unitaria all'impero. In parte per l'uso di manufatti e di materiali da costruzione deperibili, come il legno e il feltro, che non hanno lasciato tracce durature nei secoli. Eppure, più di qualsiasi altra nazione, i mongoli hanno impresso sulla Storia il loro marchio potente: la Pax Mongolica. Alcune monumentali tartarughe di pietra, solidamente piantate nel suolo, sono tutto ciò che resta di Karakorum, la Capitale del Mondo descritta con stupore e meraviglia da Marco Polo. Si narra che nel giardino del palazzo imperiale sorgesse un albero d'argento a grandezza naturale che, durante i banchetti, spandeva a beneficio dei convitati vino, birra, airak e altre bevande pregiate. Quanto ai templi lamaisti, solo un’esigua schiera è stata risparmiata dalla furia iconoclasta di Stalin accanto a un numero ancor minore di monasteri. Ma tutto questo lo sapevamo. Occorre qualche tempo per realizzare in che cosa la Mongolia è davvero speciale. Per intuire ciò che la differenzia dai paesi circostanti. Appena usciti dalla capitale si nota l'assenza di qualsiasi recinto o steccato. Non vi sono barriere in grado di limitare gli spostamenti o delimitare confini di proprietà. Tranne i minuscoli orti che cingono le abitazioni cittadine tutta la terra è di proprietà comune. Un'altra particolarità si manifesta attraverso la quasi totale mancanza di vie di comunicazione. Con l'eccezione dei tre principali tronchi stradali asfaltati che afferiscono a Ulan Bataar, tutto il paese è percorso da una rete di piste e tratturi, mutevoli e cangianti come ruscelli che seguano l'orografia di un tormentato territorio, adattandovisi. Non appena usciti da una città, da un villaggio, ecco svanire ogni strada, scomparire qualsiasi indicazione. Si è liberi di scegliere una direzione a piacere, orientandosi con l'aiuto dei pali di legno della bassa tensione che uniscono tra loro, per lo più in linea retta, le "capitali" regionali. Del resto, spostarsi in un paesaggio ondulato simile al fondo di un catino dal bordo circoscritto entro un anello di montagne non sembrerebbe richiedere altra iniziativa che seguire fedelmente la direzione prescelta. Operazione facile all'apparenza, ma niente affatto banale, perché sovente le piste sono interrotte dalle acque limacciose di un guado o da una distesa insuperabile di paludosi acquitrini, simili a sabbie mobili. I guadi, quando non affrontabili direttamente perché troppo profondi, si superano risalendo il corso d'acqua anche per chilometri, sperando, prima o poi, d'imbattersi in un provvidenziale pur se traballante ponte di tronchi. I paludosi acquitrini ci hanno insegnato come, al di là di ogni dubbio, la via più breve che unisce due punti dati sulla carta equivale ad una lunghissima deviazione. Per noi che trascorriamo buona parte della vita rinchiusi entro enclave private, segregati in ambienti artificiali che ci costringono ad un forzoso contatto con i nostri simili, tutto questo sembra assai poco familiare. Le vaste praterie dove è possibile viaggiare per giorni senza incontrare anima viva comunicano un forte senso di libertà dove il piacere di un incontro fortuito può cancellare in un istante la monotonia di lunghe ore di viaggio, facendo dimenticare la stanchezza di fronte ad un sorriso straniero. Nulla di sconvolgente, se non fosse per noi così difficile comprendere appieno il valore di un senso dell'ospitalità sobrio ed essenziale quanto naturale e istintivo. L'etica nomade impone di accogliere il forestiero in modo naturale, senza chiedere nulla in cambio. Con semplicità, attraverso la spontaneità. Una consuetudine da cui si sono allontanate tutte le culture sedentarie. Il fascino nascosto della Mongolia risiede in questo genere di quotidianità, frutto di uno stile vita itinerante che le nostre abitudini rendono arduo accettare e ancor più difficile apprezzare. Sotto questo aspetto la Mongolia si rivela un paese seducente come pochi altri, a patto di essere disposti a rinunciare ad alcuni pregiudizi. A patto di dare un valore diverso a quello a cui solitamente attribuiamo eccessiva importanza, ad iniziare da un diverso concetto di tempo e distanza. Purché si sappia godere, senza abusarne, del comfort semplice ed essenziale che può offrire una ger, la dimora trasportabile dei pastori mongoli, sempre a disposizione di chi si vuole rifocillare e riposare, prima di riprendere il cammino. Un viaggio in Mongolia è gustare il sapore della panna acida da poco scremata, della ricotta salata di capra accompagnata della carne bollita di marmotta servita con dure gallette di zucchero e farina. E’ il contatto con gli allevatori nomadi, è montare i piccoli ma veloci cavalli mongoli. E’ bere il kumiss (o airak), la bevanda tradizionale leggermente alcolica prodotta con latte di giumenta fermentato in otri di pelle di capra, mentre gli ospiti spiegano con orgoglio le prodezze equestri del figlio al nadaam locale. E' sorseggiarlo con cautela infinita dalla coppa di radica rivestita d'argento intarsiato, cercando di non inghiottire le mosche annegate che ci galleggiano dentro.
La Mongolia d’oggi, in tutto neppure tre milioni di persone, racchiude realtà tra loro contraddittorie. Un solo paese ospita due culture e numerosi gruppi etnici. La prima è quella degli allevatori nomadi, in maggioranza mongoli Khalkha, Kazaki all’ovest e Buriati verso nord, vicino al confine con la Siberia. Vivono accudendo al proprio bestiame e, per farlo, sono costretti a spostarsi continuamente in cerca di nuovi pascoli, portandosi dietro le abitazioni, tende circolari di feltro chiamate ger. La seconda è una moderna società industriale, occidentalizzata e globale, che si è stabilita presso la capitale e nei villaggi di provincia creati negli anni trenta col proposito di dar vita ad una collettività urbana in grado di rifornire di carburante umano la nascente manifattura. Il tentativo d’imbrigliare i nomadi trasferendoli dalla libertà della steppa alla schiavitù della fabbrica o della miniera, d’alterare una millenaria cultura forgiando dal nulla arti e mestieri, ha lasciato in eredità moloch isolati, come la grande miniera a cielo aperto di rame e molibdeno di Erdenet o la vicina fabbrica di tappeti, oltre che alcune modeste città e una manciata di villaggi. Sono i capoluoghi di provincia o aimag, diciotto sperdute enclavi urbane all’interno di un paese esteso cinque volte l’Italia, quasi del tutto privo di strade e infrastrutture. Il progetto stalinista, tanto pianificato nei minimi dettagli quanto velleitario, si proponeva di dar vita ad una società socialista nuova di zecca, combinazione di meccanizzazione e statalismo, collettivizzazione e balletti russi. Il corollario implicava rendere sedentari il maggior numero possibile di mongoli, creando nuove classi sociali quali operai e contadini. Lo sforzo fatto e gli investimenti profusi sono stati enormi, ma gli scheletri di cemento armato delle fabbriche e i mucchi di rottami abbandonati ad arrugginire all’aperto, raccontano un’altra storia. Dieci anni or sono, la crisi economica del potente vicino non ha significato solo la chiusura di tutte le basi e la partenza dei militari, ma anche quella delle loro famiglie e dell’indotto di piccoli traffici e servizi che attorno ad essi gravitava. Il ritiro russo ha assunto in breve tempo le dimensioni di una fuga precipitosa, incalzato dalla rabbia dei mongoli per le mancate promesse del grande fratello, del padre-padrone. Dietro, sulla steppa, sono rimasti solo ruderi e rovine. Nelle campagne il declino avanza inarrestabile a causa dell’inaridirsi del flusso di materie prime e pezzi di ricambio che per decenni avevano artificiosamente sostenuto l’economia. Gli appartamenti di stile occidentale, ancorché di concezione moderna, non erano stati costruiti per fronteggiare, abbandonati all’incuria, il severo clima della steppa. Le case prefabbricate di cemento, alla mercé di un clima che non concede tregua, si stanno letteralmente sgretolando, aggredite dal gelo dell’inverno. La causa prima si deve ricercare tra i Mongoli stessi, che non hanno mai avvertito la necessità di abitare entro alloggi, se non per svernare o come temporaneo luogo di scambio per barattare merci contro animali nell’ambito di un’economia intrinsecamente autarchica. Il nomade è geneticamente refrattario ad una vita segregata all’interno di mura domestiche come tra le pareti di un ufficio. Tranne poche eccezioni, tra cui Ulan Bataar, le cittadine capoluoghi di provincia sono non-luoghi: monumenti al kitsch estesi quanto un paese. Ricordano le peggiori città siberiane, di cui sono la caricatura. Il municipio e il teatro dell’opera sono tra le costruzioni che attirano subito l’attenzione per i colori vivaci che spiccano sull’incongrua e severa facciata d’ispirazione neoclassica ancorché ingentilita da colonne e capitelli sorretti, a volte, da cariatidi e telamoni. Le opere in muratura si affacciano disciplinate sulla piazza principale, ricoperta da sconnessi lastroni di cemento nei cui interstizi fa capolino una timida erbetta sfrattata dalla steppa. Al centro della piazza sorge invariabilmente una statua monca con una targa che ricorda, in cirillico, qualche eroe obliato. Lungo il viale per le sfilate del giorno dell’indipendenza si affacciano atroci casermoni che ospitano negozietti e uffici vuoti. Al centro del boulevard sorge un parterre invaso da erbacce, sparute aiuole sperdute in un arcipelago di profonde pozzanghere. Ad un’estremità del corso sorge il giardino pubblico, rachitico e negletto, su cui domina immancabile un monumento celebrativo, costituito per lo più da un blindato dismesso innalzato su di un piedistallo, ma con la stella rossa bene in vista, a ricordare chi era il padrone. Simboli semplici ma efficaci, nel loro spoglio realismo. Il museo cittadino, tomba d’animali impagliati e vecchie foto, e uno scalcinato albergo statale completano il paesaggio. Tutto attorno strade di terra battuta, centrali termiche in rovina, casupole e pali elettrici di legno legati col fil di ferro a pilastrini di cemento infissi nel suolo. In posizione periferica, quasi nascosto tra le catapecchie, sovente difeso da un alto steccato, sorge uno spoglio tempio buddista. Nient’altro.
Occorrono dodici ore circa per superare altrettanti chilometri di terra di nessuno che separano Nauski, ultima stazione della Siberia, da Sücke-Bataar, cittadina di frontiera mongola. Una lentezza che è anche indice di un cambiamento culturale, di un diverso valore attribuito al tempo. Il treno n°264 proveniente da Ulan Ude, si ferma a Nauski, abbandonando il vagone undici nell’attesa interminabile di un tender a carbone per il passaggio al di là della frontiera russa. Per ingannare l’attesa, chiusi in un vagone-tradotta dimenticato per ore ad arrostire sui binari, ci siamo consolati leggendo le gesta di Ulagu e dell’Orda d’Oro. Al tramonto, sbuffando e sferragliando, il miniconvoglio costituito da un vagone attaccato al tender della motrice si è finalmente avviato per attraversare la terra di nessuno, fino a Sücke-Bataar. Il nostro vagone è stato quindi inserito nel convoglio notturno diretto alla capitale, dove siamo giunti sul far dell’alba attraversando una campagna di morbide e ondulate colline di smeraldo, immerse in una densa e pesante bruma da brughiera scozzese.
Ma chi era Sücke-Bataar? Il nome significa eroe dell'ascia, e fu uno degli artefici della rivolta mongola del 1920, personaggio decisivo nella lotta per l’indipendenza della Mongolia, che Pratt fa incontrare a Corto Maltese nel corso del tentativo di rubare ai controrivoluzionari bianchi guidati dall’ataman cosacco Nikolai Semenov e dal suo luogotenente, il preteso barone Ungern, un treno blindato carico d’oro. Stanchi del giogo cinese e dell'invasione dell’ammiraglio Kolciak, capo dei russi bianchi, una ristretta élite di mongoli colti espulse dal paese sia gli uni che gli altri, alleandosi col male minore, i bolscevichi, ed esautorando l’VIII Jebtzun Damba, il Lama Supremo Bod Gegen, Budda vivente di Urga, Gran Khan nonché Gyatso, Oceano di Saggezza, detentore unico dal potere civile e religioso nella medioevale Mongolia pre-rivoluzionaria. Con la scomparsa di Lenin, Sücke Bataar, il combattente ed eroe della lotta per l’indipendenza, finì misteriosamente al volgere degli anni venti. Gli successe lo stalinista Choibalsan, pupillo del dittatore georgiano, che governò come un monarca assoluto per ventidue anni. Gli ideali della rivoluzione furono traditi sul nascere con l’avvento di un’epoca di "normalizzazione", fatta di purghe, devastazioni dei monasteri e confisca statale dei beni di proprietà dei lama, deportazioni ed eccidi. Un regime durato sessant’anni, fino al suo crollo improvviso nel 1990, trascinato del collasso dell’Unione Sovietica. La storia recente ha finalmente portato al pluralismo e all’alternanza nell’esercizio del potere, chimere per un’economia fortemente indebitata e completamente dipendente dall’estero sia per le esportazioni che per i rifornimenti di combustibile. La fine del centralismo statalista ha significato la santificazione del profitto, l’avvento di una privatizzazione di facciata che ha consolidato il potere nelle mani della stessa oligarchia che aveva gestito in precedenza le sovvenzioni russe. Il risultato è il dilagare della corruzione, dell’arte d’arrangiarsi diffusa a ogni livello, sia per aver accesso a un corso universitario sia per ottenere la patente di guida. Per transitare sui ponti di tronchi dei grandi fiumi al nord del paese ci è toccato pagare pedaggi che, recentemente, si sono quintuplicati. I proventi non sono però impiegati per finanziare i necessari lavori di manutenzione, come si deduce dallo stato precario delle strutture, ma intascati, tout court, dai casellanti. Le numerose difficoltà entro cui si dibatte oggi la Mongolia non sono che il riflesso del caos della nuova Russia, un vicino potente ma fragile, mai come ora esposto alle lusinghe della ricchezza, dove il nuovo verbo è arricchirsi. Il turismo stesso, che a parole si vuole incoraggiare con ogni mezzo, è la prima vittima di una gestione farraginosa che la pesante eredità burocratica stenta a modificare. Le modalità stesse del rilascio dei visti, subordinati ad inviti ufficiali ottenibili previo pagamento di costosi pacchetti preconfezionati scoraggiano l’auspicato incremento del turismo indipendente. Pochi grandi agenzie statali, che trattano principalmente con controparti statunitensi e giapponesi, si dividono la ricca torta dei gruppi organizzati vendendo i pacchetti preconfezionati a prezzi fuori da ogni logica di concorrenza, grazie alla gestione esclusiva dei principali ger camps. In questa realtà dominata dal dollaro e dal profitto, concentrati nelle mani di pochi, è molto improbabile un aumento a breve termine del flusso di ventimila turisti annui, con buona pace dei progetti di liberalizzazione del settore.
La nostra interprete e guida si chiama Ariunchimeg. Ha sempre preferito, per semplicità, che usassimo pure noi il soprannome datole dagli amici, Aniuka. Giovane e carina, ha ventitre anni, non facili da indovinare in un volto i cui tratti orientali celano in modo naturale sia l’età che gli stati d’animo. Il sorriso è il suo tratto più evidente, mai affettazione o cliché stereotipato a beneficio dei clienti, quanto il riflesso di un carattere dolce e disponibile, un’epitome di gentilezza persino eccessiva nella premura prodigata a soddisfare i capricci di noi turisti ipocondriaci. La sua ottima pronuncia tradiva un lieve accento americano, eredità di un corso d’inglese negli Stati Uniti, ci ha spiegato con un pizzico d’orgoglio, legittimo del resto in un paese dove sino a pochi anni or sono era impossibile recarsi all’estero e dove l’America rimane ancora un privilegio concesso a pochi. Aniuka è stata fortunata: il padre, ballerino, fa parte del balletto nazionale, il prestigioso corpo di ballo un tempo esibito all’estero per dar lustro al regime. Ha viaggiato molto, grazie alle frequenti tournée, di cui una in Italia. La madre insegna economia, ed è lei che, da sola, ha cresciuto la famiglia e allevato i suoi due figli. Aniuka ha un fratello che lavora, ma lei studia ancora psicologia all’università, più per dovere che per le possibilità reali di lavoro che questa professione può offrire in una realtà dove per ottenere un posto nella pubblica amministrazione occorre pagare l’equivalente di due anni di stipendio. Questo naturalmente, in via, diciamo così, ufficiosa. Aniuka studia e lavora, svolgendo le mansioni d’interprete e accompagnatrice di gruppi turistici nel periodo estivo oltre che dare lezioni private in inverno. Adora sia il rock duro e assordante delle neonate band locali, un intreccio di nazionalismo e temi indigeni, che gli immancabili hamburger con le patatine fritte. In questo è autenticamente figlia del suo tempo, di una generazione che ormai si assomiglia sotto qualsiasi latitudine. Il fatto di accompagnarci le ha permesso per la prima volta di viaggiare in lungo e in largo attraverso il suo stesso paese: la stupita meraviglia riguardo a quanto incontravamo era sincera e persino superiore alla nostra. Il fatto di vivere in città è considerato un privilegio e lo stile di vita della popolazione nomade è valutato negativamente come un retaggio del passato da superare. Le lezioni di lingua si sono dimostrate per noi più ostiche del previsto. Buon giorno e buona sera sono locuzioni difficili da pronunciare in mongolo e ancor più da tenere a mente: non le ricordo già più. Come si dice ti amo? Altra frase poco usata, che sono incapace di pronunciare persino nella mia lingua. Grazie Aniuka, bairtà, questa parola, almeno, non l’ho dimenticata.
La Mongolia è il paese dei cinque animali, da cui dipende la prosperità del paese. Sono la pecora, la capra, la mucca (accomunata allo yak), il cammello e il cavallo. Tutte le greggi di pecore includono capre, ma solo i pastori ne
sanno spiegare la ragione. La capra fornisce latte e compagnia per la pecora, ma la sua carne viene di rado consumata. Spesso lo yak è impiegato al posto della vacca, ma il suo latte è più grasso. Per il traino di carri si impiegano indifferentemente cammelli, yak o tori. Le mandrie miste si vedono solo al nord e un loro sottoprodotto è lo hainag, un incrocio tra mucca e yak. L'opposto, cioè l'incrocio tra un toro e una femmina di yak è possibile, anche se non è impiegato. L'hainag maschio è sterile, come il mulo, ma è più robusto dei suoi genitori. Possiede un pelo più lungo di quello della madre ma più corto del padre. L'animale tradizionale da trasporto è il cammello bactriano, quello con due gobbe, diffuso specialmente nelle aride praterie del Gobi. Sono bestie imponenti e formidabili, anche se indocili. Si impiegano come cavalcature e come animali da tiro. Sembrano muoversi liberi, mentre pascolano in piccoli branchi, ma in Mongolia tutte e cinque le specie di animali domestici sono proprietà di qualche famiglia, distante a volte decine di chilometri. Entrambe le gobbe erette significano che l'animale gode di buona salute. Se, al contrario, penzolano flosce è sintomo di una cattiva condizione, come succede spesso al termine dell'inverno. Non è raro imbattersi in una carovana di mezza dozzina o più di cammelli mentre procedono incolonnati, trasportando le provviste, le masserizie e la casa stessa di una famiglia che si sta spostando in cerca di nuovi pascoli. Il più prezioso dei cinque animali è senz'altro il cavallo. La razza mongola è bassa di statura: assomigliando nell'aspetto a un pony eccezionalmente forte, vigoroso ed energico, dotato di una splendida coda e una folta criniera. Meglio non insistere sulla somiglianza ad un pony con i Mongoli, altrimenti possono offendersi. Per qualche strana ragione i cavalli scuotono spesso il capo, quasi annuissero, fermi con indolenza in mezzo alla pista ma pronti a scattar via all'ultimo istante al passaggio di un fuoristrada. I cavalli sono lasciati liberi di scorazzare per le praterie. Per acchiapparli si fa uso di una sorta di lasso rigido, detto urga (il vecchio nome della capitale Ulan Bataar). Si tratta di un'asta di legno lunga tre o quattro metri alla cui estremità è appeso un cappio che si può stringere o allentare tirando una corda. Serve a catturare i cavalli ma per impiegarlo occorrono grande abilità e destrezza. In passato, un urga infisso nel suolo segnalava agli estranei di tenersi alla larga, perché nei paraggi era in atto un incontro amoroso. Le corse dei cavalli costituiscono il più importante dei tre sport nazionali praticati nei nadaam, (parola che significa giochi) accanto alla lotta e al tiro con l'arco. Presso ogni provincia si svolge periodicamente un nadaam. Le graduatorie locali fissano i concorrenti al grande Nadaam che ha luogo ogni luglio nella capitale. E' l'equivalente dei nostri Giochi Olimpici. Lo scopo principale, oltre al divertimento degli astanti, è quello di provare il coraggio, la volontà, la forza, la freddezza e la prontezza di riflessi dell'uomo oltre alla velocità e resistenza del cavallo. A questo scopo sono scelti cavalieri bambini, di età non superiore a dieci anni. Non c'è un'età minima. I bambini che gareggiano spesso non raggiungono i cinque anni. Si può ben dire che i mongoli sappiano andare a cavallo ancor prima di aver imparato a camminare come fossero nati sulla sella. Le gare si svolgono sulla distanza di trenta chilometri, che sono coperti in tre quarti d'ora circa. Non è una crudeltà verso i bambini, sostengono i mongoli. E' il modo più logico per provare le qualità della cavalcatura, non già del cavaliere. I vincitori di ciascuna gara sono detti cavalli kumiss e attraversano in trionfo lo stadio mentre un canto particolare viene intonato in onore del vincitore della categoria senior, proclamato cavallo dell'anno.
Il rosso è il colore prediletto dei Mongoli, accanto al blu intenso. Rosso e blu, tinte forti, vive, taglienti come una lama, luminose come il bianco delle ger, oasi di umanità sperdute nel mare di giada della steppa. Rosso come il fuoco, o il sangue, blu come i cieli profondi dell’altipiano. Ulan Bataar, l’Eroe Rosso, così è stata ribattezzata Urga, città che di rosso possiede solamente il nome, come rossa e blu è la bandiera della Mongolia, su cui campeggia il Soyombo, dorato emblema nazionale le cui origini sono legate alla cosmogonia Lamaista. Ogni elemento che lo compone ha un significato mistico ed esoterico, ma gli allevatori mongoli, gente pratica, ne impiegano le singole parti in combinazioni uniche per marchiare e identificare il bestiame. In alto, al di sopra di tutto, sta il simbolo della fiamma a rappresentare rinascita e crescita, clan familiare e continuità della stirpe. Le tre lingue di fuoco rappresentano il passato, il presente e il futuro. Al di sotto compare il disco del sole sopra una falce di luna, simboli delle divinità naturali pre-buddiste. Nel complesso universo magico e simbolico dei nomadi mongoli, una lancia o una freccia infissa nel suolo significano morte. Nel Soyombo, i due triangoli stilizzati con la punta rivolta verso il basso s’interpretano come morte per i nemici. Due rettangoli orizzontali, che racchiudono i simboli cinesi dello yin e dello yang, rappresentano l’onestà e la giustizia tra i governanti e il popolo. Yin e yang, luce e tenebra, femmina e maschio, gelo e calore, unità degli opposti dell’universo. Secondo il lamaismo i due pesci la cui unione forma il cerchio centrale yin-yang sono le allegorie di ragione e saggezza. I due rettangoli verticali che circoscrivono e racchiudono tutti gli altri simboli rappresentano una fortezza e si rifanno al detto antico che vuole l’amicizia tra due uomini più forte delle mura di pietra a monito che l’unità del popolo Mongolo è il fondamento della forza della nazione.
Vagando per la steppa, o attraversando un passo montano, ci s’imbatte in mucchi eterogenei di pietre di foggia piramidale con infisso al centro un palo di legno. Spesso le pietre sono avvolte da stracci blu che ondeggiano al vento, altre sormontate da ossa sparse, un teschio o una mandibola di animale. Sono chiamati ovoo, parenti poveri delle analoghe pile votive sparse per gli altipiani del Tibet. La somiglianza si esaurisce però nel rituale esteriore: i classici tre giri in senso orario. L’omaggio che i mongoli, popolo assai superstizioso, rendono all’ovoo, costituisce in effetti più una concessione di tipo liturgico al buddismo che un formale atto di fede. Quello mongolo è il perpetuarsi di un rituale sciamanico antico, che affonda le proprie radici nella superstizione. E’ l’omaggio agli spiriti invisibili e imperscrutabili che permeano l’aria e la terra e dal cui capriccio dipende la nostra sorte. L’offerta è qualche volta in denaro, ma più spesso consiste in piccole pietre o cocci di bottiglia o pezzetti di legno. Più importante è non passare accanto dando mostra d’ignorare l’ovoo posto lungo il cammino. Gli stessi autisti degli UAZ, i robusti pulmini 4x4 di fabbricazione russa, quando costretti a proseguire, rendono loro omaggio girandoci attorno con l’automezzo e tutto il suo carico di turisti. Non è possibile viaggiare attraverso la Mongolia senza fare qualche concessione agli spiriti ultraterreni, identificabili coi Dharmapala, i difensori del Dharma. Sono semidei di aspetto terrifico e irato, come Beg-ts’e, versione lamaista di un dio della guerra tibetano pre-buddista, conosciuto in Mongolia con il nome di Jamsarang. Il suo volto irato color indaco è facilmente riconoscibile nei thangka appesi nei templi di Erdene Zuu e Amarbayasgalant, raffigurato nell’atto d’impugnare una spada e schiacciare il nemico.
Un viaggio nel paese del cielo blu, appellativo sacro ad ogni Mongolo, è anche un percorso a ritroso nel tempo che porta a rivisitare un passato cancellato da millenni di cultura stanziale e urbana, per riscoprire nell’altro le nostre radici, nella diversità la continuità con il passato. La memoria ancestrale delle antiche origini non è stata completamente cancellata dall'immaginario collettivo di quella vasta parte d'umanità che, sedentarizzandosi, ha dato origine alla cosiddetta "civiltà". Questo ricordo riaffiora periodicamente attraverso vecchie e nuove smanie di ricerca e riappropriazione del "naturale" e del "biologico", parole taumaturgiche il cui reale significato sfugge se non in associazione ad un utopico stato di felicità perduta. Il patto tacito posto a fondamento e salvaguardia di ogni società stanziale consiste nella rinuncia di una parte di libertà in cambio della difesa della proprietà, una sicurezza spesso relativa. La scarsa capacità del singolo di controllare le scelte collettive porta non poche persone ad invidiare il nomadismo per la sua seducente semplicità, intimamente legata ai cicli della vita. Non mancano esempi di scrittori di fama che, stigmatizzando uno sviluppo insostenibile, hanno caldeggiato “l’alternativa nomade” come possibile via d’uscita alle contraddizioni del progresso. Per altri, invece, l’unica alternativa realisticamente praticabile consiste nell’impegno costante volto a preservare la diversità, mantenendo intatto il patrimonio biologico e culturale. Certo è un bene che gli abitanti della Mongolia tramandino il proprio retaggio alle generazioni future, ma perché questo sia possibile occorre un miglioramento immediato delle condizioni di vita, della sanità e dell'istruzione. La Mongolia d’oggi, finalmente affrancata dagli ingombranti tutori del passato, è quanto mai fragile e incerta sul proprio avvenire ed ha estremo e urgente bisogno di progresso materiale. Paradossalmente è solo grazie agli aiuti delle opulente società stanziali che potrà essere garantita la sopravvivenza della civiltà nomade. I segnali del mutamento in atto sono lenti ma si possono già cogliere osservando i beni di consumo presenti nella capitale, la presenza degli internet café come dell'illuminazione elettrica, la diffusione di motociclette e veicoli a motore parcheggiati nella steppa accanto ai cavalli e ai cammelli. Tradizione e innovazione all’ombra delle paraboliche che annullano lo spazio, portando all'istante la musica pop delle Spice Girls all'interno delle ger fin negli angoli più remoti del paese, spuma nel mare della modernità.
Agosto 2000