"Il té nel deserto si mesce tre volte:
Il primo è amaro come la morte,
il secondo forte come la vita,
il terzo dolce come l'amore." (Antico detto Tuareg)
"La grève. Oui monsieur c’est la grève”, mi spiega l’ineffabile caposcalo dell’aeroporto Houari Boumédiéne di Algeri, allargando le braccia in un gesto a metà tra il perentorio e il rassegnato. E’ a causa dello sciopero dei controllori di volo, che reclamano un aumento dello stipendio bloccato da anni, se dall’inizio di aprile a questa parte i voli nazionali decollano col contagocce. Quest’oggi solo pochi aerei hanno ricevuto l’indispensabile autorizzazione, tra cui quello dell’Ambasciatore italiano e del suo cospicuo seguito in gita turistica a Djanet. Rimane il dubbio se si sia trattato di una modesta ma significativa vittoria dell’arte diplomatica piuttosto che di un favore reso ad un personaggio importante. Se così fosse, fatte le debite proporzioni, avremmo ritrovato pure qui le cattive abitudini di casa. La nostra avventura algerina è iniziata così, nella più assoluta incertezza. Precluso il mezzo aereo la nostra meta, l’oasi di Tamanrasset, appariva quanto mai distante. Un miraggio assai più lontano di quanto non indichino i mille e ottocento chilometri di piste che da Algeri conducono nel cuore del Sahara. Le insidie di un viaggio via terra in direzione sud sono dovute al rischio d’incontri indesiderabili più che a difficoltà intrinseche dell’itinerario, nonostante nel paese sia ben avviato un cammino irreversibile che ha voltato definitivamente la pagina più nera della storia dell’Algeria indipendente. La legge sulla concordia civile (in cui è previsto l’indulto per gli ex-terroristi) è stata sottoposta alla ratifica popolare attraverso un referendum approvato lo scorso settembre con il novantotto per cento dei voti. Negli stessi giorni, l’Esercito islamico di salvezza, braccio armato del Fis (Fronte islamico di salvezza), ha negoziato la resa. Si intravede così la fine di una guerra civile che ha fatto più di centomila morti, raggiungendo insensati vertici di ferocia nell’ipocrita illusione che un qualsiasi nuovo ordine emergente dall’orrore dei massacri collettivi si possa mai ammantare di una qualsiasi plausibile giustificazione morale o religiosa. I colpi di coda di questo funesto passato, che ancor oggi non si rassegna a scomparire del tutto, si leggono nella cronaca di prima pagina dei quotidiani di lingua francese in vendita nella capitale. Il fanatismo del Gruppo islamico armato (Gia) non è ancora giunto al capolinea, pur se la progressiva tendenza alla riduzione delle vittime suggerisce un valido motivo per sperare nel contrario. La prudenza è d’obbligo perché è molto arduo per uno straniero valutare l’attendibilità di un regime i cui principali mezzi d’espressione restano una stampa sottoposta a libertà vigilata e un canale televisivo unico. Gli algerini conoscono solo una parte di quanto è accaduto loro negli ultimi anni, in una confusione che è stata alimentata dalla repressione delle forze di sicurezza. Perché la vittoria della politica di concordia del nuovo presidente è, in parte, anche frutto di quegli stessi uomini che hanno diffuso con lo stesso entusiasmo le parole d’ordine della guerra e del rifiuto di qualsiasi dialogo, a riprova che sotto qualsiasi latitudine gli assassini hanno una sorta di smania irresistibile d’infilarsi nel letto delle loro vittime. Ma la stanchezza e la rassegnazione della gente si sono manifestate attraverso l’adesione plebiscitaria all’iniziativa referendaria del nuovo presidente Bouteflika in un anelito al cambiamento che ha accomunato le principali formazioni dell’opposizione, siano esse laiche, nazionaliste o anche islamiche. L’unica certezza è che, grazie alla barriera naturale del deserto, i Tuareg a sud del paese sono stati risparmiati dalla marea di follia collettiva, quasi che le aride lande disabitate del Grande Erg Orientale e Occidentale abbiano agito da frontiere naturali, isolando efficacemente la gente del deserto dal terrore stragista e dalla cieca reazione del potere. Hanno certamente contribuito sia la forte identità etnica, che ha lasciato poco spazio al fondamentalismo, sia la differente mentalità delle popolazioni nomadi, più impegnate a difendere la propria indipendenza che preoccupate di rispondere al richiamo di moderne quanto illusorie jihad.
Trascorsa una tranquilla notte ad Algeri, siamo quindi riusciti ad imbarcarci sul volo per Tam del giorno seguente. Forse si è trattato di pura fortuna anche se mi piace pensare che le grandi qualità di cortesia e attenzione nei riguardi dell’ospite, trasversalmente diffuse nel mondo arabo, abbiano giocato un ruolo non secondario a favore della nostra pattuglia di estenuati turisti, consentendoci infine di partire. Inshallah!
Il Sahara dispiega la profondità dei suoi orizzonti intangibili unicamente dall’alto. Il miglior punto d’osservazione per ammirarne tutta la varietà e ricchezza di forme non è però la quota di crociera d’un aereo di linea. Il deserto, visto attraverso il cristallo di un oblò, è avaro di dettagli. Uno spesso strato di foschia opalescente cela l'orizzonte in perpetuo. Alcuni profili si rivelano guardando in basso, verso il nadir, là dove l’oceano di sabbia dorata del Grande Erg Occidentale ha bruscamente termine e i colori mutano dall’oro al rosso alle mille tinte brune del terreno. Le ombre del tramonto, allungandosi, disegnano l’alveo che antichi fiumi fossili hanno scavato per millenni o milioni di anni prima di prosciugare. Per meglio apprezzare la terza dimensione, la profondità, occorre iniziare dal basso, dal suolo, per salire fin sulle colline di massi di granito o arrampicarsi sui sentieri delle montagne di nero basalto che emergono come isole dal mare dorato di un oceano di sabbia in perenne movimento. La parola Sahara, dall’arabo “vuoto”, ha anche il significato di “verità”, ma questa definizione è ingannevole se presa alla lettera. Il Sahara è tutto l’opposto della piatta e disabitata distesa che la parola sembrerebbe indicare. E’ la sintesi di un insieme variegato di paesaggi uniti dal denominatore comune dell’aridità e della posizione geografica. All’interno del “non essere” si scopre una sorprendente ricchezza di forme e di colori, di vita e di storia: infinite variazioni sul tema “deserto”. Altopiani rocciosi, immensi ammassi di sabbia adagiata su piatte superfici rocciose, imponenti massicci rocciosi, pinnacoli d’arenaria scolpiti dall’erosione, cataste di blocchi di ogni dimensione levigati dalla sabbia e sagomati in forme arrotondate nel corso d’innumerevoli stagioni di sole e di gelo. Fiumi di sabbia chiara costellata qua e là da macchie di tamerici segnano il corso sepolto degli oued. Le pianure sconfinate di polvere ocra e ciottoli neri sono ciò che resta di un’antica savana spogliata dalla vegetazione. E poi l’Erg, il deserto di dune a perdita d’occhio. Il Sahara centrale comprende, in territorio algerino, il massiccio degli Hoggar, un ciclopico quadrilatero di seicento chilometri di lato per un’altezza media di duemila metri, coronato dalle cime dell’Atakor e dell’Assekrem, alto quasi tremila metri. L’Hoggar è attorniato dall’altopiano tabulare del Tassili degli Ajjer a nord-est e del Tassili degli Hoggar a sud, interrompendo le estensioni sabbiose dei Grandi Erg Orientale e Occidentale. Le dune riprendono più a sud, nel Niger con il Ténéré, e nel Mali con il Tanezrouft, “nudo come il palmo di una mano”. Un altro grande massiccio, il più grande, è il Tibesti. Situato nel Ciad settentrionale ha cime che si spingono fino ai tremila quattrocento metri dell’Emi Koussi, ed è circondato da profonde depressioni chiuse che scendono sino a duecento metri di altezza. Ma questo, parafrasando un noto detto, è un altro viaggio.
Ovvero, in lingua Tuareg, il Tassili (altopiano) n’Ajjer (dei fiumi). E davvero i fiumi vi scorrevano numerosi, in tempi remoti. Le acque hanno scavato i profondi canyon che solcano l’altopiano. I rari acquazzoni trasformano le profonde gole in imbuti naturali che convogliano la pioggia per dar vita ad effimere cascate. La preziosa acqua si raccoglie in pozze a carattere stagionale che alimentano tutto un microcosmo ecologico. Il massiccio del Tassili è un piatto tavoliere lungo ottocento chilometri e largo una cinquantina, confine naturale tra Libia e Algeria. I mille e settecento metri d’altezza contribuiscono a rendere il clima sopportabile per metà dell’anno, ma da maggio a novembre “la chaleur” domina incontrastata e ogni attività s’arresta, schiacciata sotto una cappa d’aridità infuocata. Sull’altopiano del Tassili le formazioni rocciose impermeabili offrono ombra e riparo dal sole, trattenendo nel contempo parte dell’acqua piovana. Solo così è possibile una precaria sopravvivenza per gli animali di piccole dimensioni, che restano rintanati durante il giorno, ben protetti dal sole, ed animano invece la notte del deserto. Mufloni, lepri dalle lunghe zampe, lucertole dai colori dell’arcobaleno, qualche raro dromedario oltre agli immancabili predatori, sciacalli e fennecs, popolano un’area completamente disabitata vasta migliaia di chilometri quadrati. La superficie dell’altopiano è in gran parte una piatta distesa di roccia ma, in alcune zone, la combinazione unica di erosione eolica unita all’azione di antiche acque sotterranee ha scolpito l’arenaria dando origine ad un labirinto naturale di aguzzi pinnacoli e ampi meandri, in un’alternanza di grotte e camere naturali dove è facilissimo perdersi. Le formazioni assomigliano ad un’antica città, abbandonata da secoli, i cui edifici mozzi guardano il cielo attraverso squarci che ricordano le finestre di palazzi diroccati. Protetti e preservati dal clima arido, dall’isolamento e dall’asprezza del territorio, sono stati scoperti in questo luogo da archeologi francesi negli anni Trenta migliaia di affreschi rupestri ottimamente conservati, databili tra ottomila e duemila anni or sono. Un’altra particolarità di quello che è forse il più grande parco archeologico di pitture rupestri esistente al mondo, dichiarato World Heritage Site, luogo patrimonio dell’umanità, è che le pitture e le incisioni sono accessibili unicamente a piedi, dopo aver scalato i ripidi contrafforti rocciosi che si affacciano sulla piana di Djanet. La prima tappa richiede almeno quattro ore di scarpinata, oltre al superamento di cinquecento metri di dislivello. Giunti alla sommità dell’altopiano si apre alla vista un paesaggio quasi extraterrestre, che custodisce tra i propri tesori la testimonianza di antiche civiltà scomparse. Gli antenati delle civiltà fluviali, come quella egizia, dei popoli nomadi, come quello dei Tuareg, hanno popolato per millenni quello che oggi è un arido deserto al tempo in cui l’Europa era in gran parte sepolta sotto una profonda coltre di ghiacci continentali.
Nel cuore dell’altopiano del Tassili, in località Tamrit, c’è un albero che si dice abbia duemila anni d’età. E’ solo il più grande di un’esigua schiera di superstiti che, semplicemente, hanno deciso di non morire mentre i millenni fluivano e tutto, intorno, si trasformava in un’arida pietraia arroventata. L’albero di Tamrit non colpisce per le sue dimensioni, che probabilmente non arrivano ai venti metri d’altezza, né per l’età, poiché nel mondo vegetale vi sono certamente esempi di piante più antiche. No, la sensazione che ispira è di meraviglia di fronte ad un solitario essere vivente che affonda le radici nelle sabbie d’un asciutto oued inseguendone con tenacia tutta vegetale l’esile umidità fin sul fondo roccioso, molti metri più in basso. Il suo nome botanico è Cupressus dupreziana. Appartiene alla famiglia dei cipressi, ma non somiglia affatto ad un cipresso, piuttosto ad una sequoia. Una mano ignota ha infisso in profondità nel legno dei comuni picchetti da tenda, forse come aiuto per salire. Ora sporgono solo dei monconi arrugginiti, inglobati tra le pieghe della corteccia, una scorza coriacea e rinsecchita, incallita e cresciuta su se stessa per dar forma ad una pelle decrepita che ha raggiunto una condizione così poco vivente da non poter più morire. Travature orizzontali mozzate da secoli sporgono dal fusto come superstiti segnavia di crolli remoti. La chioma è asimmetrica, quasi minuscola rispetto alla massa che la sorregge. Eppure, mentre ne accarezzo la superficie, avverto come un brivido, la consapevolezza che l’età di questo essere vivente è dello stesso ordine della storia scritta dall’uomo, che ha assistito impassibile e inconsapevole alla nascita e al crollo d’imperi, di sogni e d’illusioni di vita eterna, esso stesso tanto vicino all’eternità, secondo il metro umano, quanto condannato a estinguersi senza poter dar vita a una progenie. C’è qualcosa di malinconico e di grandioso insieme nel suo lungo sopravvivere in regale solitudine per un tempo lunghissimo, alieno da qualsiasi speranza o finalità, nell’indifferente attesa che un aleatorio capriccio del clima renda nuovamente possibile il suo perpetuarsi.
Al centro dell’altopiano del Tassili, in mezzo ad un caos di guglie e d’anfratti, sono celati splendidi esempi d’arte parietale che affondano le radici nel neolitico e raccontano per immagini la vita quotidiana dei nostri antenati sahariani. Anche se le pitture si rinvengono di solito presso aree circoscritte, in genere occorre spostarsi di parecchi chilometri tra un sito e il successivo, in un dedalo di rocce e pinnacoli che rendono la zona simile ad un impenetrabile labirinto. Le pitture rupestri sono per la maggior parte eseguite sulle pareti concave di queste formazioni naturali di arenaria, che offrono un parziale riparo dagli elementi e dall’azione erosiva della sabbia. La porosità naturale della roccia favorisce inoltre l’adesione dei pigmenti. Si tratta di polvere di caolino per il bianco e di ossidi minerali per gli altri colori. I pigmenti erano finemente tritati, mescolati ad acqua o forse ad altri leganti organici quali l’albume e la caseina. Le tonalità realizzate dagli antichi artisti con questi materiali spaziano dal bruno al cinabro, dall’ocra al giallo in una scala cromatica che contempla per lo più tonalità “calde”. Vi sono anche delle incisioni rupestri, eseguite a sbalzo o martellando oppure picchiettando con un punteruolo di pietra o di legno indurito nel fuoco un sottostante disegno a carboncino. Mentre le pitture rupestri sono circoscritte a poche regioni, come il Tassili n’Ajjer, le incisioni, o graffiti, sono diffuse nei quattro angoli del Sahara. Ma la ricchezza delle pitture, la raffinatezza degli stili e delle tecniche è propria unicamente del Sahara centrale, uno dei grandi centri culturali dell’umanità del neolitico. Si è convenuto, in mancanza di una cronologia assoluta, di classificare l’arte rupestre delle varie culture che si sono avvicendate nel corso dei millenni riferendola agli animali più rappresentativi dei singoli periodi. Così, dal Bubalus antiquus (specie di bufalo dalle grandi corna a mezzaluna, estintosi in epoca neolitica), prende nome il periodo più antico, quello bubalino. Successivamente si è identificato un periodo detto dei pastori bovidiani. Compaiono quindi raffigurazioni di carri trainati da cavalli in seguito all’introduzione di questo animale in Africa nel II millennio a.C. da parte degli asiatici Hyksos. Il cavallo compare nei rupestri africani in un momento in cui la grande fauna selvaggia, prima rappresentata in gran numero, tende a scomparire quasi del tutto. Questo periodo coincide con l’inizio della fase finale dell’inaridimento, intorno a tremila e cinquecento anni fa. L’aspetto affascinante è che dalla perfetta rappresentazione dei carri è possibile dedurre molto sull’antica tecnologia di costruzione. Lo studio della distribuzione geografica e della frequenza dei rupestri in cui sono raffigurati porta a ricostruire un’ipotetica “Pista dei carri” che attraversava il Sahara dal Mediterraneo al Niger. Nell’ultima fase, o periodo del cammello, il deserto ha assunto l’aspetto attuale e compaiono le raffigurazioni di questo animale, anch’esso di provenienza orientale, a riprova del fatto che la desertificazione era ormai completa. Siamo ormai in epoca storica e in questa fase, databile intorno al II secolo a.C., compaiono anche le prime iscrizioni in tifinagh, caratteri che ancor oggi costituiscono l’alfabeto dei Tuareg.
Per il non specialista, l’emozione più grande suscitata dall’ammirare queste pitture è data dal raggiungerle attraverso luoghi impervi, per anni disertati anche dalle forme di turismo più avventuroso. Le stilizzazioni animali, viste attraverso l’occhio ingenuo del non specialista, appaiono sorprendentemente “moderne”. I guerrieri armati di arco e lancia, i cavalieri al galoppo, le figure umane decorate con scarificazioni rituali come nell’affresco di Tan Zoumaitak, sembrano appartenere alla nostra epoca, tanto sono ben conservate e “vive”. Il Grande Dio di Sefar, che con i suoi sei metri d’altezza può considerarsi la più grande pittura rupestre della preistoria, testimonia la comparsa di una proto-religione, anche se non mancano i soliti estrosi che lo attribuiscono allo sbarco d’ipotetici “marziani”. Le amazzoni di Sefar, le caricature di personaggi umani, la barca egizia di Tamrit, ci restituiscono con realismo e vitalità ritratti di antiche civiltà con un’immediatezza superiore a quella che possiedono tanti reperti preistorici sepolti nei musei. E’ un patrimonio fragile, il cui valore la civiltà moderna, prevalentemente occidentale e urbana, riesce a comprendere e apprezzare solo con fatica. E’ la dimensione del deserto.
Aprile 2000