“Chi sarebbe così insensato
da morire senza aver fatto almeno
il giro della propria prigione?”
L'opera al nero
Ci sono luoghi al mondo un po’ speciali, immersi in qualcosa d’indefinibile: un’aura peculiare che aleggia impalpabile e lieve e pervade e compenetra le cose. Il Kailas è uno di questi luoghi, un polo di sacralità, un grande attrattore. La montagna sacra simboleggia un archetipo, un’assonanza con il Tutto della tradizione Bhuddista che si rinnova nel rituale del pellegrinaggio: un ponte tra il passato che non tornerà più e un futuro dove tutto è possibile. Ci ha condotto fin sotto i suoi ripidi versanti, ciascuno spinto dalle proprie convinzioni, dalle proprie illusioni. E’ sorprendente ritrovarsi accanto a persone dissimili per religione, cultura, etnia, camminando fianco a fianco intorno ad un monte in capo al mondo che conserva intatto attraverso i secoli il potere di attrarre e affascinare. Quale è la molla che dispone a percorrere le brulle pietraie, ansimanti nell’aria rarefatta, seguendo un antico sentiero che offre al viandante solo freddo e vento, fatica e affanno, pesantezza e sofferenza? Certamente l’autorealizzazione, l’appagamento per aver raggiunto la meta attraverso luoghi impervi e disabitati dove le passioni sono alimentate dal contrasto tra il nostro fragile essere e le forze sotterranee di una natura non ancora antropizzata, tanto potenti quanto indifferenti, la cui grandezza ci restituisce in modo ancor più netto la nostra reale dimensione. Una consapevolezza che può lasciare attoniti ma non indifferenti, sia che indirizzi i pensieri verso entità superumane sia che porti ad accettare di far parte, anche noi minuscole schegge autocoscienti, di quel Tutto che poi è anche il Nulla del buddismo Zen, il Mu. La verità è sfuggente come solo la materia sa esserlo, pur se entrambe generano un’apparenza di persistenza e solidità fatta d’impalpabili veli che si sovrappongono in una trina di vuoti riuscendo a dare l’illusione della realtà entro cui noi, assieme alle algide montagne, all’orbe terraqueo, all’universo tutto riposiamo inconsapevoli sul Nulla.
Ogni pellegrinaggio che si rispetti deve aver inizio oppure fine presso un luogo sacro. In Tibet, la città più sacra, l'unica che a buon diritto si possa definire tale - le altre sono poco più che villaggi - è senza dubbio Lhasa, il miglior punto di partenza per intraprendere un pellegrinaggio attraverso il Tibet occidentale fino al Kailas e i sacri laghi di Manosarovar e Rakas Tal. A Lhasa, un quartiere in cui si mescolano in egual misura santità e mondanità è quello che si affaccia sulla piazza del mercato, il Barkhor. Al centro di quest'ultima sorge il Jokhang, uno splendido complesso di terrazze, cortili e pagode dorate, circonfuso da una nube odorosa che rivaleggia con l'aura di sacralità che da esso pare irradiarsi. Gli effluvi profani che diffondono dal vicino mercato si fermano alla soglia del Jokhang, ondeggiano incerti e poi indietreggiano quasi riluttanti a mescolarsi con gli odori sacri che avvolgono il tempio con un'invisibile ancorché reale manto odorifero: una miscela fumosa di burro di yak combusto, erbe aromatiche e tè salato unita all'acre esalazione dei monaci e dei fedeli. L'ingresso esterno è sempre affollato da schiere di pellegrini che si genuflettono continuamente mentre nel cortile interno, all'ombra del porticato, i lama seduti a gambe incrociate su duri cuscini di velluto rosso sangue sono impegnati in molteplici attività: chi assorto nella lettura dei sutra, chi intento a recitare i mantra con voce profonda e vibrante, chi preso a percuotere tamburi, cembali, timpani o a soffiare entro trombe e tromboni. Per trovar riparo da questo stridente assalto sonoro e olfattivo ci si può rifugiare all'interno, nel sancta sanctorum perennemente sull'orlo di un'umida penombra dove tra le statue del Buddha e dei bodhisattva aleggia greve l'odore di burro di yak unito ad un penetrante sentore di muffa e di legno antico mescolato al lezzo stantio della polvere. Iniziare un pellegrinaggio da questo luogo per raggiungere l'altro polo sacro del Tibet, il Kailas, diviene dunque un cammino verso atmosfere più luminose e rarefatte, verso odori e suoni più leggeri, verso spazi aperti e puliti, in breve, un viaggio dall'immanente al trascendente.
L'estate del 1995 sarà a lungo ricordata in Tibet per un lieto evento, tanto raro quanto singolare nella sua solennità e importanza: la proclamazione del nuovo Panchen Lama. Questo fatto ha avuto come conseguenza la messa in stato di assedio della seconda città del Tibet, privando chicchessia della possibilità di accedere al celebre monastero di Tashillumpo. In Tibet, come nel mondo cattolico, le cariche religiose durano per tutta la vita. I vertici della piramide vengono scelti non già tra parigrado riuniti in conclave ma da un comitato di lama e monaci che hanno il compito di setacciare il paese in lungo e in largo alla ricerca di fanciulli che portino addosso "segni" caratteristici e che mostrino attitudini peculiari ritenute prove a favore di un'avvenuta reincarnazione. Il metodo presenta certi vantaggi, come quello ovvio di evitare di favorire i candidati potenti e ambiziosi e quello più sottile di mantenere sotto controllo l'educazione del futuro lama. Un'antica consuetudine vuole che la seconda autorità religiosa del lamaismo tibetano, il Panchen Lama per l'appunto, sia riconosciuto ancora infante dal Dalai Lama, il primus inter pares. A propria volta il Panchen avrà facoltà di riconoscere e "autenticare" una successiva reincarnazione dal Dalai e così via consacrando. Ad interferire con un meccanismo così ben collaudato sono arrivati i cinesi che hanno avocato a sé, dopo la morte dell'ultimo Panchen Lama, avvenuta prematuramente a causa di una misteriosa epidemia di attacchi cardiaci che ne ha anche eliminato i genitori e i parenti all'indomani dei fatti di Tien an Men, il diritto di riconoscere la reincarnazione del piccolo Buddha. Siccome il vecchio Panchen era membro del comitato centrale i dirigenti del partito comunista hanno avuto la faccia tosta di sostenere che, in virtù delle affinità ideologiche palesatesi nel corso della vita precedente, la ricerca ed in seguito l'educazione del nuovo Lama avrebbe dovuto essere condotta sotto la guida del governo, creando così un avversario politico del Dalai Lama in esilio. Le ricerche proseguivano già alacremente da alcuni anni quando Tenzin Gyatso, l'Oceano di Saggezza, il Dalai Lama premio Nobel per la pace nonché massima autorità morale dei tibetani ha deciso di giocare d'anticipo riconoscendo l'avvenuta reincarnazione del Panchen in un bambino di sei anni già candidato ufficioso del governo di Pechino. I dirigenti cinesi si sono così trovati a scegliere tra due alternative entrambe per loro assai sgradevoli: o disconoscere l'avvenuto riconoscimento del proprio candidato, minando la propria autorevolezza spirituale e di conseguenza politica, perché per i tibetani i due concetti sono come le facce della stessa medaglia oppure riconoscere implicitamente l'autorità del Dalai Lama in un dominio pericolosamente vicino alla politica. E' così avvenuto che l'arcinemico abbia lanciato con successo un siluro alle spalle della dirigenza cinese, che ovviamente non ha gradito, e che un bambino di nome Gedhun Nyima, nato in un remoto villaggio del distretto di Lhari nella regione del Qinghai, sia diventato vittima di una prova di forza per il controllo spirituale del Tibet. Dimostrando l'abituale fair-play i cinesi hanno reagito sequestrando il piccolo Buddha assieme alla famiglia, deportata in località segreta. Altre contromisure sono state l'arresto di Chatral Rinpoche, abate del Tashillumpo a Shigatse da cui si sospetta sia partita la soffiata al Dalai Lama, la repressione delle proteste ottenuta con arresti e misure di polizia e infine con la proibizione agli stranieri, nessuno escluso, di avvicinarsi allo stupendo monastero. Del destino personale di un bambino conteso, vittima di vicende più grandi di lui, importa probabilmente a pochi. Una nota poesia zen del maestro giapponese Sengai recita: “Solo per nascita. Solo nella morte. / Esisto nell'intermezzo, solo, il giorno e la notte. / L'io che nasce e muore solo / è l'io che solo abita quest'umile capanna.”
Due sono le anime del Tibet che è possibile cogliere nel corso di un viaggio in questo vasto e spopolato paese. La realtà di un mondo cruento popolato da divinità che devono essere pacificate coesiste con una speranza di liberazione dal dolore rivolta a tutta l´umanità sofferente. Mentre la prima riflette un mondo nomade, arcaico, cruento, l´altra rimanda ad una definitiva certezza: che vi è scampo alla catena di nascite e morti da cui siamo avvolti come in un vortice senza fine e che la salvezza consiste nel non morir più, nel non più rinascere. Coloro che scelgono volontariamente di reincarnarsi per aiutare gli altri uomini lungo il cammino verso la Liberazione vengono chiamati bodhisattva e di loro - un po' come il nostro calendario per i santi - è prodiga l´iconografia buddista. La fede nella trasmigrazione è così radicata che a nessuno è venuto in mente di dimostrarla, contrariamente a quanto accade nel cristianesimo, che abbonda in prove inoppugnabili dell´esistenza di Dio. Il buddismo e le dottrine da esso derivate come il lamaismo hanno ereditato la fede nella reincarnazioni senza metterla in discussione ma proponendo una via di scampo al vortice immutabile delle reincarnazioni. I popoli montanari hanno fama di essere conservatori e questa regola è confermata anche in Tibet, dove il buddismo Mahayana giunse relativamente tardi, profondamente trasformato dalle credenze magiche indiane e dalle preesistenti fedi sciamaniche. Una sorta di selezione naturale ha dato origine ad una singolare religione, conosciuta come buddismo Vajrayana o Veicolo del Diamante, che è stata paragonata al cattolicesimo per la struttura gerarchica e la fede in un'anima individuale oltre che per esser popolata da spiriti, demoni, inferni e quant'altro. La tradizione vuole che dall'India arrivò un mago, di nome Padmasambhava (Guru Rinpoche), portando con sé il sapere dei tantra. Questo corpo di conoscenze segrete, il cui accesso è coperto dal più rigido veto iniziatico, è costituita da una serie di testi esoterici e da pratiche che consentono all'adepto di percorrere una sorta di scorciatoia verso l´illuminazione, via breve se paragonata alla Via Graduale del buddismo Mahayana. Il curioso che voglia esplorare una scheggia del lungo cammino dell´anima può consultare il Libro Tibetano dei Morti. Gran parte dei testi sacri dei Sakyapa, oltre che ad antichi manoscritti sanscriti vergati con polvere d'argento e d'oro su foglie di banano, sono conservati nel Lhakhang Chenmo di Sakya. L'imponente monastero-fortezza (è il maggior edificio del Tibet dopo il Potala) ospita una biblioteca di oltre 20000 libri, sistemati con un ordine imperscrutabile su polverosi scaffali di legno addossati alle alte pareti interne della grande sala di meditazione. Al centro di questa ogni anno viene pazientemente creato un tangka composto da polveri multicolori sovrapposte con pazienza certosina a formare bizzarri ghirigori. Addossate ai muri dell'ala nord sono invece conservate le spoglie mortali degli abati che nel corso dei secoli si sono avvicendati alla guida della setta dei berretti rossi, fondata dai patriarchi Marpa e Milarepa. I corpi imbalsamati, ci hanno assicurato, sono ancora all'interno dei chörten dorati a testimonianza di un costume unico in cui il labrang, ovvero la residenza abbaziale, non si avvicendava con il metodo dei lama reincarnati come altrove in Tibet ma ereditariamente, di padre in figlio.
Nel cuore del Chang Tang, il grande altipiano tibetano, si snoda la catena del Kangtise Shan che rincorre l'Himalaya per molte centinaia di chilometri prima di culminare nel Tisé, la montagna padre, l'ombelico del mondo, dimora, tra gli altri, della dea tantrica Dorje Phamo e di Sipaimen, dea della Grazia Celeste secondo i bön. I due sistemi montuosi sono divisi da un insieme di valli e di pianure solcate a ovest dall´Indo e a sud-est dallo Tsangpo (il Brahmaputra) le cui sorgenti convergono nell'area dei sacri laghi Manasarovar e Rakas Tal, spartiacque tra il mar Arabico ed il golfo del Bengala. Quattro fiumi sacri nascono dai monti e dai laghi della zona diramandosi ai quattro punti cardinali come dal centro di una rosa dei venti o di un fiore di loto: sono l'Indo, il suo tributario Sutlej, il Brahmaputra ed il Karnali, un affluente del Gange. La sottile capacità di far vibrare le più profonde risonanze dell'animo umano scaturisce, almeno in parte, dalle grandi e potenti qualità che le montagne posseggono. L'altezza, la vastità, i misteri dei loro recessi, il manto di nebbie o di nubi che ora le avvolge ora le scopre, i bizzarri rumori del vento tra le gole, il rombo di una slavina o di un eco beffardo, la sensazione di tremende energie imprigionate pronte a liberarsi all'improvviso o al minimo errore, il sentirsi osservati dall'alto di solitudini inviolate, tutto questo conferisce a ciascuna montagna una personalità, un'aura soggettiva, unica come per gli esseri umani e capace d'ispirare sentimenti di reverenza se non di adorazione. Le montagne, come i deserti, si impongono allora all'immaginazione come esseri, grandi esseri dotati di spiritualità pari o in misura maggiore a quella degli uomini, simili a dei o loro dimora: basta ricordare Ayer's Rock, Adam's Peak, l'Ararat, il Chomolhari, il Fuji, il Kilimanjaro, l'Olimpo o il Sinai. Così il Kailas, noto ai tibetani con il nome di Kang Rinpoche, la Preziosa Gemma Innevata, è stato meta di pellegrinaggi da molto prima che l'anacoreta buddista Milarepa vi si stabilisse nell'XI° secolo, sull'onda missionaria proveniente dall'India. Nella lotta per la supremazia religiosa, esemplificata dalla leggendaria sfida tra Naro Bön-chung e lo stesso Milarepa, la vittoria del buddismo sull'antica religione sciamanica bön è totale e investe il Kailas di un ruolo che supera le pure dimensioni fisiche fino all’identificazione con il mitico monte Meru, centro e asse del nostro universo secondo la cosmogonia buddista, sorta di medium verso il mondo ultraterreno. Secondo i pii indù la montagna è invece il trono di Mahadeva: il dio Shiva che siede sulla vetta in perpetua meditazione alla destra della consorte Parvati, la figlia dell'Himalaya. Una scena simile è scolpita su di un bassorilievo che risale ad oltre mille anni fa, all'interno del tempio di Kailashanta a Ellora, nell'India centrale non lontano da Aurangabad. Così non è forse per puro caso che il profilo del Kailas stagliato contro il cielo rassomigli a quello dei templi di Khajuraho o a certi templi di Mahabalipuram, a sud di Madras, prototipi dello stile architettonico dravidico dei Pallava. Il desiderio di espiare i propri peccati acquisendo meriti in questa vita induceva migliaia di pellegrini a compiere incredibili sacrifici pur di compiere almeno una volta nella vita il giro della montagna incappucciata di ghiacci perenni, la cui forma geometrica piramidale ricorda ai buddisti un chörten colossale ed agli indù il lingam di Shiva. Le cause di una tale manifestazione di fede hanno radici lontane che si confondono con antiche superstizioni precedenti all'affermazione del buddismo in Tibet, una via di mezzo tra il bramanesimo e lo sciamanesimo nei tempi in cui le montagne venivano ancora considerate dimore divine. Dei passati fasti religiosi, quando attorno alla montagna fiorivano i gompa allineati lungo il sentiero che ne abbraccia le falde come un'amante gelosa, rimane oggi solo un pallido ricordo. Dai giorni in cui la rivoluzione culturale è arrivata con furia iconoclasta sino al luogo più sacro del Tibet, devastando senza risparmio con una cecità pari a quella di un ciclone, i tre gompa del circuito esterno sono stati ricostruiti più dall'ostinazione dei monaci che per volontà delle autorità che hanno infine graziosamente concesso ad una sparuta pattuglia di lama una cauta libertà vigilata, senz'altro motivo, sembra, che mantenere una facciata di normalità ad esclusivo beneficio del turismo. La povertà degli arredi racconta però un'altra storia denunciando distruzione e abbandono. Per uno strano fenomeno di osmosi culturale si contano oggi attorno al Kailas più turisti occidentali che pellegrini indiani o tibetani, ridotti ad un’esigua schiera di epigoni di una tradizione che sta cambiando. Anche questo è un segno dei tempi: che a perpetuare un'antica consuetudine contribuiscano gruppi turistici elitari provenienti dai paesi industrializzati al posto dei naturali eredi delle usanze popolari. Pur restando fortunatamente ancora ben lungi dall'essere un circuito affollato abbiamo avuto l'opportunità di marciare durante i tre giorni del kora fianco a fianco con un gruppo di sadhu indiani provenienti dal Lipulekh, avvolti solo nei loro gialli sarong. Ai piedi indossavano semplici sandali mentre calpestavano la neve gelata del Drölma La ad oltre 5600 metri, completamente impreparati ad affrontare la tormenta ed il freddo pungente. Li abbiamo visti avanzare sferzati dal vento gelido e con le vesti fradicie, sorretti solo dalla fede, in stridente contrasto col nostro fiammante abbigliamento tecnico di Gore-tex®. Ci hanno inconsapevolmente dato una lezione di stoicismo, di cui mi sono vergognato.
Lasciato il Kailas e le piane di Barka, la pista dei pellegrini e dei mercanti punta verso il Nepal lungo la valle del Karnali attraversando dapprima la stretta dorsale di colline che separa i due laghi sacri, il Rakas Tal dal Manasarovar, le tenebre di Ràvana dalla luce di Rama. Dopo aver costeggiato le ghiaiose spiagge di ciottoli bianchi lambiti dalle fredde acque blu del frastagliato Rakas Tal la pista inizia dolcemente a salire, aggirando il massiccio del Gurla Mandhata che chiude l'orizzonte meridionale. La pista prosegue costeggiando la cintura montuosa alla base delle tre cime in cui si divide la superba montagna di 7728 metri, sacra tanto agli indù quanto ai tibetani. In “Tibet ignoto” il professor Giuseppe Tucci ci racconta che secondo la tradizione indiana sulle cime inviolate si rifugiò per meditare il re Mandhata mentre per i buddisti la leggenda sostiene che nei suoi ghiacci, ove uomo non può metter piede, sorge l'etereo palazzo di una celebre deità dell'esoterismo buddistico, il Guhyasamàja. I tibetani chiamano la montagna Namo Nanri, parola antica la cui etimologia si perde nei tempi che precedono l'introduzione della scrittura nella provincia di Purang. Dal lago la strada sale a macadam fino ai 4700 metri del Gurla La, un luogo ideale per ammirare l´imponente cappa glaciale che appare ingannevolmente vicina mentre rivela il proprio spessore là dove le pareti di roccia divengono verticali, ammiccanti quanto indifferenti al brivido che suscitano. A differenza delle nostre Alpi l’assenza di profonde valli e di vegetazione tendono ad esaltare le dimensioni dei monti, che si alzano dalle pianure simili in lontananza ad un mucchio di cristalli lucenti sullo sfondo celeste. Così si presenta il massiccio del Gurla Mandhata al termine del kora del Kailas quando, usciti della valle del Zhong Chu, la vista si apre sulle pianure di Barka oltre cui brilla la candida chiostra dell'Himalaya dalle vette frastagliate che sembrano uscite da un quadro surrealista. Dal passo si deve salire e poi scendere attraversando il torrente Gurla Chu, che scorre nel vallone tra le cime, prima di riuscire a giungere alla base della spalla ovest, una piramide triangolare già visibile da Darchen ad oltre cinquanta chilometri di distanza. Quest'ultima, un nano a paragone della vetta, si protende in avanti come il dito di una mano a difesa della cima vera e propria che la sovrasta di oltre mille metri, incombente e solitario gigante nell'aria rarefatta. Largo oltre otto chilometri alla base il “dito” triangolare è delimitato da due creste ghiacciate che convergono a quota 6470. Il filo di cresta, così riunito, scende poi a precipizio tra balzi e gendarmi rocciosi per ricomparire molto più innanzi tra ghiacciai pensili ed enormi seraccate puntando verso la cima in uno scenario di grande bellezza. Inerpicandosi sugli erti pendii ghiacciati si oltrepassano le nubi, che perdono gradualmente la forma compatta degli acquerelli cinesi per trasformarsi in pura luce danzante che proietta ombre solide. Dall’alto gli squarci nel mare di nubi lasciano filtrare i riflessi blu acciaio del Rakas Tal e del Manasarovar, permettendo di intuirne i contorni. Oltre i laghi sacri, all'orizzonte, risplende il bianco cono del Kailas simile ad una gemma sospesa tra le nuvole, scintillanti solitudini unite come due bocche in un bacio.
Al di là del Passo Gurla il paesaggio cambia. Gli altipiani racchiusi da immani castelli di ciclopi ammantati di ghiaccio scompaiono, trasformandosi in valli che si fanno via via più profonde e incassate mentre si ripiegano lungo il corso del Karnali là dove passa la via del sale, ancor oggi via maestra dei traffici tra il Tibet occidentale e le pianure indiane. Capoluogo di questa terra di confine, non ancora Nepal e non più Tibet, è la cittadina di Purang, ovvero Taklakot, una delle quattro prefetture in cui si divideva il Tibet occidentale. Il distretto di Purang, un tempo regno libero, è stato a lungo formalmente indipendente dall’egemonia religiosa dei Dalai Lama e per ragioni storiche e geografiche godeva di una certa indipendenza dal governo di Lhasa, geloso della propria autonomia perché crocevia dei commerci e dei pellegrinaggi provenienti dall'India attraverso il valico di Lipulekh e dal Nepal via il Nara La. Il moderno villaggio ha un aspetto polveroso e militarizzato, progettato con criteri moderni e razionalisti che restituiscono un'aspetto affatto dissimile da quello dei lindi e ordinati villaggetti del circondario. I cantieri aperti un po’ dovunque sfornano moderne (e brutte) abitazioni in cemento armato, caserme e sedi di polizia che i laboriosi Han si industriano a popolare con una nuova classe dirigente burocratico-militare trapiantata con chissà quali metodi da una capitale distante oltre 5000 chilometri, in un revival di nuovo (e vecchio) social-imperialismo. Dall’ultima spedizione di Tucci, una sessantina di anni fa durante una delle numerose campagne di studio nel Tibet occidentale, molte cose sono cambiate a Purang. I cinesi si sono ora insediati stabilmente, grazie ad una forte presenza militare la cui funzione principale è di affermare la propria presenza in una regione d’importanza strategica perché prossima al confine con l'India. Tra Cina e India esiste ormai da anni un contenzioso territoriale unito ad un gelido silenzio diplomatico per l’ospitalità che il governo di Delhi continua a concedere al Dalai Lama (che quando non viaggia all’estero sta in esilio a Dharamsala, nell'Himachal Pradesh non molto distante dal confine col Tibet). Sulla cima di un’erta collina gialla da cui dominarono su queste contrade i re di Purang giacciono stagliate contro il cielo le rovine dell'antica cittadella il cui profilo frastagliato fatto di bastioni crollati e di torri precipitate ricorda una mandibola con i denti spezzati. Ben diversa dovette appararire a Tucci la cima della collina una cinquantina di anni or sono, quando ospitava ancora la sede della prefettura e due importanti monasteri di cui oggi rimangono solo macerie. Scrive Tucci: « Chi comanda su questa provincia di Purang è una donna. Il prefetto (zonpòn) è restato a Lhasa e attende ad altri negozi. Seguendo un costume ormai tradizionale ha mandato in vece sua la moglie; del resto la “zomponessa”, come tutte le donne tibetane, è esperta negli affari quanto o più degli uomini ». Purang ospitava pure una singolare comunità monastica di asceti che vivevano in grotte adibite ad abitazione scavate nel bel mezzo della parete di ciottoli e arenaria che strapiomba sul fiume, accessibili solo con alte scale fabbricate a partire da un solo tronco. La maggior parte delle celle in cui dimoravano i monaci sono ora disabitate, nere cavità che scrutano la valle simili a vuote orbite di teschi. Alcuni lama hanno recentemente ottenuto il permesso di tornare ad abitare le grotte-gompa e si possono visitare pagando un modesto obolo. In mezzo a tanti cambiamenti il mercato indiano è l’unico ad essere rimasto intatto: derrate come il riso ed il sale provenienti dall’India si barattano ancora con lana e generi di consumo cinesi. Le merci viaggiano sui ripidi sentieri dell’alta valle del Karnali a dorso di capra in piccole bisacce di cuoio, mentre la legna delle foreste nepalesi dell’Humla viene trasportata a spalla dai portatori fino al confine di Sher per alimentare le stufe tibetane. I carichi variano dai 20 ai 30 chilogrammi e vengono trasportati quotidianamente attraverso valichi alti più del Cervino da piccoli uomini scarni, cotti dal sole e curvi per lo sforzo e il precoce invecchiamento.
Prima di Purang la valle si allarga alla confluenza con uno spumeggiante torrente che scende impetuoso dalla parete sud del Namo Nanri, quasi cercasse nella sua giovanile irruenza di sfuggire agli alti argini entro cui si trova imprigionato. In questo luogo, disperso tra campicelli d’orzo e di sorgo racchiusi entro bassi recinti di pietre accatastate sorge un villaggio costituito da un agglomerato di neppure un centinaio di case sparse conosciuto con il nome di Tueyou Shang. Non lo troverete sulle carte geografiche, probabilmente perché troppo piccolo e privo di importanza, pur se a mio avviso incarna un archetipo così diffuso nell’immaginario collettivo da far dubitare di poterne rintracciare un modello reale. Se fossimo in Sudamerica sarebbe la Macondo descritta da Marquez, o il villaggio popolato da centenari sospeso sull’orlo dell’eternità a cui si ispira un episodio dei “Sogni” di Kurosawa. Le abitazioni sono a pianta rettangolare ad un solo piano, più raramente a due, ben squadrate e fatte di pietra rivestita da malta chiara. Ciascuna è circondata da un basso muro a secco che oltre a riparare l'orto protegge gli alberi dal vento e dai rigori invernali. La disposizione è aperta, all'opposto di quella più diffusa nella valle dello Yarlung o dello Tsangpo, dove le case sono organizzate in enclave chiuse che ricordano i caravanserragli dell’Asia centrale. Le abitazioni, come altrove in Tibet, hanno il tetto piatto sormontato da sterpi accatastati e da pile di sterco di yak: ottimo combustibile se ben essiccato. Le finestre alte e strette sono prive di vetri, richiamando alla mente le feritoie di certi castelli medioevali contornate da stipiti di color bruno rossiccio sotto un'architrave di legno rozzamente scolpito. L’insieme non è sgradevole e trasmette un’immagine di solidità unita a semplicità. Intorno ai recinti e lungo i viottoli si dipana un’infinità di fossati e piccoli canali entro cui scorrono chiare acque gorgoglianti che emanano un sommesso chiacchiericcio prima di dividersi per poi incontrarsi nuovamente nei mulini ad acqua dove le mole in pietra macinano l’orzo. Il Tibet emerge all’improvviso dall’ambiente agreste, manifestandosi con i piccoli chörten a guardia dei crocicchi, attraverso le bandiere multicolori che si agitano al vento e le ruote di preghiera in legno consunto dalla spinta d'innumerevoli mani che hanno fatto roteare l’om, il mantra dei mantra. Gli abitanti, ad un tempo curiosi e discreti, sorridono sempre in risposta al Tashi Delek che vado ripetendo ad ogni nuovo incontro, formula di saluto con cui vorrei riuscire a manifestare loro il mio sincero augurio di pagare il più tardi possibile l’amaro prezzo del progresso.
Attraversando il Tibet occidentale sorge il dubbio se la successione interminabile di monti e di valli il cui mutuo dissolversi crea l’intima natura del paesaggio, dalle grigie dune di sabbia che si trasformano in limo nei guadi ai laghi blu in cui si specchiano le montagne incappucciate di ghiaccio, celi un misterioso ordine nascosto oppure tradisca unicamente il nostro bisogno di attribuire un significato a ciò che appare una casuale combinazione d’increspature della crosta terrestre che si solleva in ciclopiche ondate come un’oceano pietrificato in cui l'assenza di movimento è solo illusione, come testimoniano le piste periodicamente sepolte dalle frane o cancellate dalle acque turbinanti dei fiumi. Le aride steppe che circondano le grigie catene di basse colline sopravvivono solo in virtù di un aleatorio capriccio meteorologico o fanno parte di un disegno recondito, non percepibile dal limitato punto di vista del viaggiatore che le percorre ma dall'occhio elettronico di un satellite in grado di riconoscere le impercettibili variazioni cromatiche conseguenza delle sinusoidi del clima? L'interrogativo si estende presto dalla geografia all'etnografia mentre attraversiamo un paesaggio umano difficile da decifrare, tanto più inconoscibile quanto più labili sono i contatti e inadeguati i nostri sforzi per coglierne le complessità. Da questa esperienza ritorno con la certezza che la collezione di foto, filmati, parole ed emozioni con cui ambirò ad incuriosire ed avvincere sono unicamente un'accozzaglia di oggetti salvati dalla dispersione, relitti di viaggio lasciati in secca dal momentaneo arretrare della grande marea entropica, incapaci di riflettere davvero l'unicità dei luoghi da cui provengono. Queste schegge cristallizzate, polvere di luoghi remoti, celeranno per sempre la loro storia segreta lasciando trasparire solo un'inquietudine geografica sintomo di una profonda incertezza, della mia personale ansia di salvezza dal naufragio generale dell'esistenza. Per quanto il Tibet e la sua storia sono ormai diventati parte di noi, e noi gli auguriamo ogni bene, una buona ragione per un pellegrinaggio sul Tetto del Mondo, oltre all'indubbio fascino che esercita il lamaismo con il suo corredo di gompa e di dzong unito alla curiosità di ammirare da vicino il Kailas assediato dai viandanti come una fiamma dalle falene, rimane perdersi negli amplissimi spazi disabitati, tra polverose pianure pallide racchiuse da candide catene montuose ora vicinissime ora proiettate in lontananza su orizzonti desertici da cui emergono come miraggi. Viaggiando per giorni tra le isole di un oceano prosciugato sul fondo di liquidi cieli di turchese è facile provare in tutto il suo ambiguo fascino la certezza della nostra solitudine come pure cullarsi nell'illusione che tutto sia senza limiti, anche se ogni cosa ha principio e fine.