Qaanaaq, meglio nota come Thule, è una cittadina groenlandese situata molto al di sopra del Circolo Polare Artico. Solo mille e trecento chilometri la separano dal Polo Nord. Verso la fine di agosto, per la prima volta dall'inizio dell'estate, il sole scende sin quasi a sfiorare l'orizzonte. Da tre mesi non tramonta, limitandosi a descrivere una spirale a ogni giro più bassa, mentre i colori del paesaggio cambiano in risposta all'inclinazione dei raggi. Tutto quello che resta del consueto avvicendarsi di luce e tenebre è una ciclica variazione cromatica. Ma l'estate sta per finire e, tra breve, i raggi obliqui non riusciranno più a riscaldare la terra. Una fredda luce arancione illumina già un mondo che cristallizza nel gelo, prigioniero di albe e tramonti interminabili. Le notti bianche lasciano posto ad una stagione di ombre lunghe, dai contorni vaghi e indefiniti, dove la debole luce solare assume riflessi di fiamma prima di svanire nel grigio indistinto dell'autunno.
Mentre gli altopiani ghiacciati scivolano via sotto alla cabina del nostro elicottero Bell-212 da nove posti in volo tra Qaanaaq e il resto del mondo, la base aerea statunitense di Pituffik, mi domando come si possa trascorrere un inverno, o vivere un'intera esistenza avvolti nel gelo e nell'oscurità, in compagnia dell'isolamento. Ma è inutile cercare risposte alle domande sbagliate, perché la prima condizione per abitare nel Grande Nord è esserci nati e non conoscere o desiderare niente altro al mondo. Il ruolo di cacciatore artico, capace di mettersi continuamente alla prova nel confronto con una natura severa, dove il confine tra la vita e la morte è labile e si misura esclusivamente nelle proprie capacità, nella propria volontà, conferisce un senso di ineguagliabile libertà e un'esaltazione che può scaturire solo dalla particolare condizione di essere padroni e servitori di se stessi. Il prezzo da pagare è la convivenza con la monotonia della quotidianità, non lenita dagli agi e dalle distrazioni che la rendono sopportabile ai più. Per chi vive un'esistenza dietro le sbarre protettive della società, il solo pensiero di vivere nell'Artide mette i brividi. Per chi invece è nato e cresciuto nel deserto, l'isolamento è sinonimo di straordinaria libertà, libertà speculare ad una solitudine altrettanto grande.
Il frastuono delle pale del rotore si perde nel mare bianco sconfinato della calotta che stiamo sorvolando. Dal basso, scomparso ogni riferimento, non è difficile perdere l'orientamento e incamminarsi nella direzione sbagliata attraverso l'illimitato deserto di ghiaccio. I plateau che circoscrivono la costa sono montagne franose di scisto e brecce scure, dalla piatta cima sommersa sotto una profonda coltre di ghiaccio che lentamente scivola in mare, spandendosi in lingue all'apparenza plastiche ma solide come la roccia su cui appoggiano. Pendii ocra si alzano gradualmente dietro le corte spiagge sabbiose, raddrizzandosi in infide superfici coperte di pietre. Più in alto, dove il paesaggio si riduce ai campi di sassi delle interminabili morene appiattite, l'inclinazione si addolcisce. Nulla cresce qui, neppure i ciuffi d'erba e le macchie d'erica che sopravvivono più in basso lungo la costa o nel sud del paese. Alla latitudine di Qaanaaq la temperatura non supera mai lo zero sopra i seicento metri di quota, anche in piena estate. Il manto di ghiaccio perenne termina all'improvviso, solcato da una ragnatela di canali scavati dall'acqua che si scioglie nelle ore più calde del giorno. Il confine tra i due elementi, roccia e ghiaccio, è netto. La calotta si erge celando alla vista quello che viene dopo: una serie di pendii ghiacciati sempre meno ripidi che convergono verso lontani orizzonti di ghiaccio. L'erto pendio terminale ingloba nel ghiaccio pietre e sassi. Rocce, ciottoli, macigni, argilla e fango rivelano che il fronte glaciale si è ritirato da qui negli ultimi cinquanta o cento anni, lasciando esposte all'aria, nude, le ossa del pianeta. Il ghiaccio è come un'immensa ondata, che ha lasciato per un attimo i detriti in secca sulla sabbia e poi se li riporta via.
La Terra degli Uomini. Gli Inuit chiamano così la Groenlandia, l'isola più grande del mondo. Il toponimo Greenland, terra verde, fu attribuito dall'esule Eirik Rauðe, Erik il Rosso, verso l'anno mille, un'astuta mossa volta a irretire i primi coloni provenienti da un'altra terra di ghiacci, l'Islanda. L'appellativo è rimasto, benché da secoli delle antiche colonie vichinghe non restino che ruderi, a riprova della persistenza dei nomi sulle illusioni umane. L'interno è completamente sepolto sotto una calotta di ghiaccio, l'inlandsis, che ricopre il suolo come un candido sudario o, se si preferisce, come la glassa di una torta. Il manto di ghiaccio raggiunge uno spessore di tremila metri al centro dell'isola. Sotto la spinta del suo peso fluisce lentamente, ma senza sosta, dall'entroterra fino al mare, scavando lunghi fiordi sinuosi. Ad eccezione delle zone costiere, che si tingono di verde durante la breve estate artica, il paese è un immenso congelatore che si apre a Nord nel Mare glaciale Artico, ad Ovest sullo stretto di Davis, ad Est nel canale di Danimarca per spingersi all'estremo Sud nell'Atlantico settentrionale, ad una latitudine corrispondente a quella di Stoccolma. C'è da rabbrividire pensando alle imprese dei primi esploratori polari, a Fritdtjof Nansen e a Knud Rasmussen, che a trenta anni di distanza l'uno dall'altro, condussero deliberatamente le loro navi Fram e Maud ad imprigionarsi nei ghiacci artici vagabondando per tre lunghissimi anni nell'oceano ghiacciato, sospinti delle correnti marine. O a Robert Peary ed alla sua controversa conquista solitaria del Polo Nord. Oppure al dirigibile Italia, scomparso tra i ghiacci polari con una parte dell'equipaggio e all'odissea di Umberto Nobile alla deriva nella tenda rossa e all'eroico tentativo di salvataggio di un altro grande esploratore dell'artico, primo uomo a raggiungere il Polo Sud, Roald Amundsen, conclusosi in tragedia con la scomparsa del suo aereo mentre conduceva le operazioni di soccorso della sfortunata spedizione dell'Italia. La Groenlandia d'oggi gode di ampia autonomia, esercitata eleggendo il locale parlamento, anche se il paese formalmente fa parte del regno di Danimarca. I cinquantottomila abitanti dell'isola, in maggioranza Inuit, godono della cittadinanza danese e vivono sparsi in diciassette città e cinquantasei villaggi, sotto la tutela di uno stato sociale tra i più avanzati d'Europa. Il turismo e la pesca sono le fonti principali di reddito, grazie agli introiti derivanti dagli accordi commerciali con l'Unione Europea. Nonostante gli sforzi fatti per esportare dubbie ghiottonerie locali, come la carne di foca e di balena, il punto di forza dell'economia locale restano i gamberetti, che a miliardi popolano le acque pulite dei mari intorno all'isola.
Intorno al 325 a.C. l'esploratore greco Pitea di Marsiglia scoprì un'isola, che chiamò Thule, situata sei giorni di navigazione a nord dell'Inghilterra. Forse era l'Islanda, forse una delle Færøer, ma a quel tempo Thule indicava semplicemente l'isola più settentrionale conosciuta. Con l'aumentare delle conoscenze geografiche quel luogo si spostò sempre più a nord, fino a designare l'estremo nord, l'Ultima Thule, che divenne sinonimo di landa gelida e disabitata. Gli Inuit, che si sono stabiliti per primi nelle terre artiche, chiamano la regione Avanersuaq o "Grande Nord". Questo nome designa oggi il distretto nord-occidentale della Groenlandia. Qaanaaq ne è il capoluogo, centro amministrativo di una regione scarsamente popolata che comprende i piccoli centri di Siorapaluk e Qeqertat, gli unici altri villaggi abitati in permanenza. Siorapaluk è un'insieme di venti case costruite a ridosso di una bella spiaggia di sabbia chiara, al termine di un promontorio tra due fiordi invasi dal ghiaccio. Gode del poco invidiabile primato di essere il centro abitato più a nord del paese, il terzo del mondo dopo Longyearbyen e Ny-Ålesund nelle Svalbard. Qeqertat sorge sull'isola omonima, al termine del fiordo Inglefield. L'isola, lunga e stretta, si para dinanzi all'imponente fiume di ghiaccio di Heilprin, che scarica nelle acque dell'immenso fiordo buona parte della calotta nord occidentale della Groenlandia. Dal fronte glaciale galleggiante si staccano iceberg alti come palazzi e subito dietro il ghiacciaio sale in lievi ondulazioni che presto inglobano, sommergendoli, anche i più alti rilievi ai lati del fiordo. L'orizzonte si riduce ad una linea bianca ininterrotta che separa la terra dal cielo. Qeqertat sorge sul lato dell'isola opposto al muro di ghiaccio, in posizione riparata. Una manciata di vecchie case, una scuola e un'antenna radio che a volte funziona e altre no, costituiscono l'unico legame col resto del mondo. Il villaggio ispira un senso di desolazione e abbandono. Sulla riva ristagna greve l'odore del grasso rancido e dell'halibut andato a male, proveniente dalle dispense dove sono stipati i pezzi di carne congelata destinati a nutrire i cani. Le grosse casse di legno fungono da celle frigorifere naturali ma durante il breve periodo estivo il contenuto risente degli effetti del disgelo, emanando un lezzo dolciastro che non sembra turbare nessuno, tantomeno i cani, che anzi gradiscono i bocconi frollati a dovere. Le prede, foche e narvali, sono trainati a riva e sezionati sul posto. Si recupera solo la carne, il grasso e la pelle, gettando tutto il resto in mare, altrimenti gli altri animali potrebbero decidere di non farsi più catturare. Questa credenza Inuit, che può indurre al sorriso, è tuttavia molto antica. Di solito occorre attendere alcuni giorni prima che la marea si porti via i resti ma in tal modo l'acqua gelida ne ritarda la decomposizione. I denti di narvalo sono molto ricercati e costituiscono una fonte aggiuntiva di guadagno. Lunghi anche tre metri possono valere fino a diecimila corone. Ai primi di dicembre, quando il mare gela e la caccia al narvalo diventa impossibile, gli scarsi abitanti di Qeqertat ritornano a Qaanaaq per l'inverno. Tutti, tranne due famiglie, che restano.
Qaanaaq (Thule) è una cittadina di ottocentosettanta abitanti. E' un luogo spoglio, pieno del suono del vento che soffia incessante dalle colline e dal ghiaccio. E' una città di frontiera, repulsiva e affascinante insieme, permeata dall'ambiguo fascino dell'esotico artico. Le strade di sabbia polverosa sono attraversate da un intrico di tubazioni sopraelevate e non di rado anche da qualche ubriaco, nonostante le limitazioni in vigore sulla vendita di alcolici. In estate, il lezzo dei cani legati un po' ovunque ammorba l'aria. Non è raro trovarne qualcuno impiccato, non tanto per dare una lezione ai propri simili, quanto per reiterare la dura legge del più forte: il cane che morde il padrone non avrà alcuna possibilità di ripeterlo.
Vista dal di dentro Qaanaaq pare una cittadina caotica e disordinata. Dall'alto invece si rivela un piano urbanistico che vuole le case allineate in file oblique, che digradano lungo un pendio sassoso fino ad una corta spiaggia dove i bambini giocano a nascondersi tra i blocchi di ghiaccio spiaggiati dalla marea. La riva è un caos di container, cataste di legno, casse, slitte, fusti di combustibile e sacchi di cemento, il tutto scaricato in fretta, appena sopra la linea dell'alta marea, accanto a pescherecci tirati in secca. La gente esce di rado a passeggio per le strade di Qaanaaq e, se lo fa, è solo per dei buoni motivi, come acquistare viveri nell'unico supermarket o fare scorta di birra e liquori. I fabbricati, dipinti a colori vivaci, rispettano un preciso codice cromatico: giallo per gli ospedali, verde per gli uffici, blu per gli ostelli e rosso per i magazzini e gli edifici pubblici. Tutte le case sono fatte di legno e presentano una pianta invariabilmente rettangolare con il tetto a due falde inclinate. Sembrano costruite con gli stampini con cui da bambini giocavamo con la sabbia. Sembrano troppo fragili e inadeguate per resistere al clima polare. L'interno è spesso surriscaldato ma l'arredamento denuncia la presenza dei comfort moderni, di elettrodomestici, impianti stereo, telefoni cellulari e personal computer.
Negli anni cinquanta, all'epoca della guerra fredda, gli USA stabilirono presso il villaggio di Dundas, la Thule storica, una grande base aerea militare che ospitava i bombardieri nucleari strategici. Una stazione meteorologica risalente alla seconda guerra mondiale fu trasformata in pochi anni in un'arma puntata contro l'unione sovietica. Gli abitanti della zona erano i discendenti degli Inuit che emigrarono dal Canada intorno al duemila a.C., gli antenati di tutti gli attuali abitanti della Groenlandia. Furono deportati duecento chilometri più a nord, nel fiordo di Inglefield, in un insediamento nuovo di zecca: l'attuale Qaanaaq. In cambio, gli USA pagano ancor oggi alla Danimarca un affitto di trecento milioni di dollari l'anno. Gli anziani di Qaanaaq si rammentano bene del trasloco forzato, a conferma che Thule rappresenta sempre, più che un luogo geografico, una frontiera aperta verso il Grande Nord.
Lassù, nel Grande Nord, il mare è solido per otto mesi l'anno e solo in estate si liquefa per gettare qualche pezzo di legno sulle brulle sponde sabbiose. Le acque che separano la Groenlandia settentrionale dall'isola di Ellesmere sono punteggiate da iceberg e da banchi di ghiaccio galleggiante che rendono pericolosa la navigazione. L'aria è gelida e il vento incessante ingrossa il mare. L'unico elemento che sulle coste rocciose a nord di Siorapaluk tradisce una provvisoria presenza umana è dato dalle capanne di cacciatori usate come ricovero durante la stagione invernale, quando il mare è gelato. Dopo una serie interminabile di promontori rocciosi intercalati a ghiacciai si giunge a Capo Alexander, all'imbocco dello stretto di Nares, sul 78° parallelo. Qui si scorgono vicinissimi e nitidi nell'aria limpida e terribilmente fredda i rilievi innevati dell'isola canadese di Ellesmere, distante non più di cinquanta chilometri. L'aspetto dell'isola è quello di un manto immacolato di neve e ghiaccio, non contaminato dal colore della terra.
La parola "Inuit" è il plurale di "Inuk", uomo, e sta ad indicare gli uomini, intesi come persone nell'accezione più generale del termine, senza distinzione di genere. Questo vocabolo ha soppiantato quello di Eschimese, più diffuso in passato, che significa letteralmente "mangiatore di carne cruda", lemma ritenuto eccessivamente brutale in un'epoca di political correctness. Gli Inuit, dunque, hanno tratti asiatici, dominati dagli occhi obliqui che spiccano sul largo volto dai lineamenti bruni e una corporatura tarchiata e robusta. I loro antenati hanno attraversato lo stretto di Bering sviluppando l'arte della sopravvivenza in un ambiente ostile, dove il principale problema era come riempirsi la pancia. Quando mettevano da parte provviste di cibo che tornavano utili in periodi di carestia, disseccando la carne al sole, lo facevano non per provvedere al domani ma perché non riuscivano con tutta la loro migliore volontà a consumare tutto quanto avevano cacciato. Non si curavano del passato o del futuro ma solo del perpetuo presente. Le leccornie di una volta, con la sola eccezione della carne secca, il cui consumo insieme al grasso crudo è ancor oggi molto diffuso, non esistono più. Sono scomparsi gli stomaci di buoi muschiati pieni di fuco e bacche e muschio di lichene, le pernici bianche frollate per mesi all'interno di budella imbottite di grasso, le interiora crude d'uccello e le larve di mosche di caribù affogate nel midollo ammuffito. Tutto questo è scomparso. La dura vita degli eschimesi polari, un popolo ingenuo e spietato a un tempo, come si desume dai libri o dai filmati d'inizio secolo delle spedizioni di Knud Rasmussen, appartiene ormai alla storia. La nostra civiltà ha trasmesso un nuovo sistema di valori basato sul consumismo e sull'avidità, unitamente al "dono" della dipendenza dall'alcool, diventata una piaga nazionale. La metamorfosi da cacciatori a consumatori di beni e servizi sta alimentando disoccupazione e una diffusa frustrazione economica. I nuovi bisogni determinano la comparsa di comportamenti ibridi quali si osservano nei luoghi di caccia del sud, dove si spara alle foche quasi esclusivamente per la pelle, mentre la carne è abbandonata a marcire. Uno spreco del genere era inconcepibile solo un paio di generazioni fa. Se da un lato i danesi hanno introdotto la scuola dell'obbligo, trasformando le piccole comunità di Inuit sparse sull'isola in una società strutturata, dotata di servizi sociali all'avanguardia, dall'altro hanno ridimensionato in modo eccessivo la cultura tradizionale basata sulla caccia, introducendo un modello di sviluppo dipendente in maniera massiccia dall'assistenza economica esterna, fondato sul predominio del danaro, con la conseguente monetizzazione di ogni tipo di servizio. Non è un caso se oggi il costo della vita in Groenlandia risulta elevato persino rispetto agli standard europei.
Me ne sto sdraiato ad assorbire i tiepidi raggi del sole nel punto più alto dell'isola di Nanortalik, l'isola degli orsi, su un promontorio di granito scuro che termina in una scogliera a picco sul mare. Una calda luce riverbera dal cielo turchese appena velato da cirri sottili. In direzione del mare lo sguardo è libero di spaziare su un dedalo di iceberg che galleggiano pigramente sino a confondersi in lontananza con la foschia che ristagna sull'Oceano. Gli elementi modellano i ghiacci che si staccano dalla calotta in forme bizzarre che la fantasia tende ad assimilare a figure familiari. Così un enorme blocco circolare al cui centro affiora uno specchio d'acqua azzurra pare un atollo tropicale, o la barcaccia del Bernini in piazza di Spagna a Roma, un altro sembra l'Arco di Trionfo e un altro ancora un castello fatato, cinto di torri e mura merlate. Scricchiolii e gemiti salgono dal basso, quando le montagne di ghiaccio s'incrinano, si capovolgono e si spezzano sotto l'urto delle correnti e delle onde. Alle mie spalle il fiordo si insinua nell'entroterra per un centinaio di chilometri. In lontananza si scorgono, sporgenti dal ghiaccio, grandi pinnacoli scoscesi e aguzzi, rocce delle quali non si vede più di quanto si veda di un iceberg in mare: fredde montagne affogate nel ghiaccio, morte da tempo immemorabile, i nunatak.
Nel settore centro occidentale del paese il ghiaccio si è ritirato nell'entroterra ed il paesaggio assume l'aspetto di una distesa di declivi erbosi e conche di granito scuro che racchiudono stagni e laghi di ogni forma e dimensione, così numerosi che è impossibile contarli. Mancano le piante perché queste formazioni rocciose levigate dai ghiacci sono completamente prive dello strato di terriccio e di torba che di solito ricopre le aree pianeggianti. Lo scudo continentale groenlandese risale al precambriano e conserva le più antiche rocce della terra. La natura compatta del gneiss e del granito ha resistito agli eoni senza finire in polvere ma il tempo ne ha plasmato le forme, arrotondandole in lisce placche che luccicano al sole. Le formazioni di brecce presenti sull'isola di Disko rivelano l'antichità attraverso il profilo frastagliato delle creste simili ai denti di una sega, e dalle cataste di massi di ogni forma e dimensione. I più diffusi sono i cristalli di quarzo, che splendono tra una moltitudine di sassi anonimi, accanto a ciottoli di calcedonio e lucidi frammenti di diaspro bruno. In questo caos di pietre si trovano dispersi minerali rari, che si trasformano in gioielli semplici ma di grande effetto sotto le abili mani degli artigiani locali. La tugtupite è un minerale di colore rosa venato da striature bianche, la cui età supera il miliardo di anni e il cui nome significa "sangue di renna". E' fluorescente e cambia colore se esposto ai raggi ultravioletti. L'eliotropio è una varietà verde di calcedonio, punteggiato da macchie di colore rosso. In epoca romana si riteneva assicurasse la fertilità mentre nel medioevo si credeva rendesse invisibili. I cristalli di quarzo traslucido con struttura a zone e venature bianche opache sono una varietà di agata molto comune. Quando però le venature sono concentriche o presentano un forte distacco tra tinte bianche e nere, quasi certamente si tratta di preziosa onice.
In Groenlandia non vi sono alberi, con l'esclusione di una piccola foresta che cresce in posizione riparata all'interno del fiordo di Tasermiut. La vegetazione, cercando riparo dal vento e dal gelo, si appiattisce a terra. La tundra, una specie di foresta miniaturizzata alta poche decine di centimetri, si sviluppa in fondo alle valli. Il manto di erica e piante nane di salice e betulla cresce solo in due dimensioni, schiacciandosi al suolo. I prati in fiore prendono le sfumature pervinca della genziana, il colore rosa delle campanule, ed il bianco candido di angelica e sassifraga. Sopra ogni cosa spiccano le bacche di mirtillo nero con i loro fiori rossi. Il vento accarezza le infiorescenze di bambagia del cotone artico, che assomiglia alle nostre bocche di leone, sopra un tappeto di carici e morbidi muschi di smeraldo.
La fauna dell'artico vive dispersa in grandi spazi. L'ambiente severo non concede molto alla vita e per questo un viaggio naturalistico in Groenlandia richiede tempo e notevoli doti di pazienza e tenacia. Non è un safari artico, ma una paziente ricerca su scala regionale. Le grandi concentrazioni di mammiferi marini mal si adattano ad un ambiente antropizzato, dove la caccia è ancora un elemento fondante della società, pur se praticata in forma estensiva e per la sussistenza di poche migliaia di persone. Le balene solcano le acque riparate dei fiordi o delle baie. Sono animali solitari, che qualche volta si spostano in coppia. La pratica della caccia non facilita certo il contatto con le timide foche o con i narvali e i trichechi di Qaanaaq. L'orso bianco è una rarità. I soli animali terrestri di grossa taglia sono i buoi muschiati e i caribù, alcune migliaia di capi che vivono protetti nella riserva di Søndre Strømfjord. L'area è stata ripopolata ad iniziare dagli anni settanta. Gli animali selvatici più diffusi nella tundra sono le lepri artiche e le volpi argentate, il cui mantello cambia colore con la stagione. Le tane sono visibili qua e là, scavate nel morbido strato di torba superficiale. Gli onnipresenti uccelli sono facilmente riconoscibili, dai gabbiani che riposano sugli iceberg, ai grandi albatross, alle sterne artiche che nidificano nelle inaccessibili scogliere strapiombanti dei fiordi.
Nell'estremità sud la Groenlandia perde la propria solidità continentale, disgregandosi in un vasto arcipelago in prossimità di Capo Farvel, il punto più meridionale dell'isola. Attraversata da alte montagne la calotta si spezza in molteplici lingue glaciali che si gettano in mare attraverso un sistema di profondi fiordi. Picchi torreggianti appuntiti come i denti di un carnivoro e lucide pareti di granito scuro delimitano un paesaggio dalle proporzioni colossali. Le montagne si alzano verticalmente sopra le acque blu cobalto e disegnano contro il cielo forme e contorni all'apparenza improbabili. La silhouette delle Dita degli Apostoli è un'opera verticale simile ad una cattedrale gotica, una Sagrada Familia alta duemila metri. Le nude torri di granito grigio di Closterdalen, alla fine dei settanta chilometri del fiordo di Tasermiut, disegnano il profilo di un gigantesco colonnato che si alza sopra i costoni rocciosi, a destra e a sinistra, ombre e neve, tra giochi complicati di chiaroscuri che brillano sotto il sole di un cielo terso e abbagliante. I ghiacciai sono stati sui pendii di queste montagne, nelle centinaia di migliaia d'anni nei quali hanno percorso la loro strada avanti e indietro, implacabili, massicci. Ci sono i segni indelebili, impressi sulle placche di granito, lunghi e dritti, come scolpiti da una sicura mano d'artista. Sui due lati, rese chiare, limpide, e rivelate dallo stesso, grande soffio di vento del nord, si stendono valli laterali piene di ghiaccio e macigni. Oltre queste valli si erge una grande parete, una parete di ghiaccio, e sollevando gli occhi e risalendo fino al bordo della parete si può ammirare il Ghiaccio Continentale, l'Inlansis, accecante, abbagliante e senza orizzonte fino all'estremo nord e bianco, bianco, di un candore che l'occhio non può fissare, non può sostenere. Sono felice di essere stato qui per ammirare questi luoghi. E' un bene avere una fine per il viaggio che si sta compiendo; ma, alla fine, è il viaggio che conta.
Groenlandia, terra di lunghissimi fiordi sinuosi e possenti iceberg, tu sei algida boréa e deserto bianco, orizzonti di ghiaccio e cima del mondo, severa maestra. Chi ti ha conosciuto non può che provare timore e nostalgia di te. Ma sei anche notti di fuochi celesti, fantasmi di stelle, aurore interminabili, albe brevi, ombre lunghe, cielo pervinca che man mano volge al rosso porpora, rosso sangue, oro vecchio, oro nuovo, luce, giorno, raggio e, finalmente … il Sole.
agosto 1999
"Saga di Eirik il rosso", Sellerio Editore, Palermo gennaio 1991, pp. 100. Lire 8.000.
"Saga dei Groenlandesi", Collana Medioevale, Pratiche Editrice (Luni Editore).
Hans Ruesch, "Il paese dalle ombre lunghe" Bestsellers Oscar Mondadori n°416, pp.221. Lire 14.000.
Georg Qúpersimân "Il mio passato eschimese" Ugo Guanda Editore, Parma 1999, pp.216. Lire 25.000.
Jørn Riel "Safari Artico" Iperborea n°77, Milano 1998, pp. 152. Lire 20.000.
Peter Høeg "Il senso di Smilla per la neve" Bestsellers Oscar Mondadori n°707, Milano '96, pp. 448. Lire 15.000.
James Houston "Alla scoperta degli Inuit" Piemme Editore, Casale Monferrato '98, pp. 376. Lire 34.000.
Aqqaluk Lynge "The story of the Inuit circumpolar conference" I.C.C. Atuakkiorfik, Nuuk 1993, pp. 124 con foto in b.n. 227,50 DKK.
Erwin Reinthaler, Hans Christian Florian, "The Unknown Mountains of East Greenland" Erwin Reinthaler Editor, Bryne Offset, Norway, 1998, pp. 162. 250 DKK.
"Kalaallit Nunaat Atlas/Greenland" Atuakkiorfik, Nuuk 1993 pp. 129. 358 DKK.