Ogni appassionato di montagna serba nel profondo del cuore un amore inconfessato, un’ostinata inclinazione verso una cima, il monte a cui siamo più legati e a cui sempre vorremmo tornare. Non importa se è dietro casa o dall’altra parte del mondo. Quest’attrazione porta il marchio di un ricordo indelebile. Il caso volle che, nonostante io sia bolognese, mio padre mi portasse da bambino a Cervinia. Lì, mezzo secolo fa, vidi per la prima volta la “Gran Becca” in un’età dove tutto è nuovo e meraviglioso. Ricordo il desiderio, misto a timore, di riuscire un giorno a salirla per vedere il mondo dall’alto in basso. Il caso volle che due grandi dell’alpinismo emiliano, appartenuti a un’epoca ormai remota, Oscar Bellotti e Augusto Righi, trascorressero ogni anno le vacanze nei campeggi della Valle d’Aosta: chiunque tra gli ex allievi era benvenuto a legarsi in cordata con loro per salire le grandi classiche dal Bianco al Rosa al Cervino: lo sperone della Brenva, la cresta Signal e la cresta del Leone solo per citarne alcune. E fu così che m’innamorai delle Alpi Pennine, della loro selvaggia bellezza, degl’imponenti ghiacciai e delle alte e affilate creste, tradendo i più vicini Appennini. Nel corso del tempo ho cercato altrove l’esatta simmetria dello “scoglio più nobile d’Europa”, come lo aveva ribattezzato il pittore inglese John Ruskin: monti analoghi e persino più imponenti non mancano in giro per il mondo, dall’Ama Dablam al K2, ma proporzioni così eleganti e regolari restano uniche. Ripensando con nostalgia alle scalate di gioventù, un bel giorno d’autunno, esattamente dieci anni fa, chiesi a Don Paolo Papone, compagno di tante gite scialpinistiche, di salire insieme il Cervino. Il Don, com'è familiarmente conosciuto a Valtournenche, è un parroco atipico, uno col pallino della montagna, degno erede della tradizione dei religiosi valdostani, simile al canonico Georges Carrel o all’abate Amé Gorret (che si sacrificò quasi in cima per permettere il passaggio decisivo e l’apertura della via italiana). Abituato alla penitenza, Don Paolo non si tira indietro davanti alla mia richiesta e così lasciamo la chiesa del paese alle 4 del mattino di lunedì 3 ottobre 2011: un lunedì, perché la domenica mattina c'è messa. Saliamo sul landrover prestatoci da Cristina, l'artista di Valtournenche, sino all’Oriondé. Alle 5 a.m., mentre a oriente il nero del cielo inizia a virare all’indaco, partiamo. Siamo soli e procediamo spediti.
Superiamo presto la Croce Carrel, posta nel punto in cui Jean Antoine “morì, non cadde”, alla sua 51-esima salita del Cervino, non senza aver messo in salvo il proprio cliente. All’alba raggiungiamo il bivacco a lui intitolato, a quota 3835 m, dove ci riposiamo. È ormai giorno fatto quando, superato il traverso del mauvais pas, Paolo mi mostra il graffito di Edward Whymper e poco sotto le iniziali di Jean-Antoine Carrel. Accanto, una data: 1861. Ero passato da qui altre volte, ma sempre di notte, fatto inevitabile se si parte dal bivacco Carrel prima dell’alba, e quindi non avevo mai notato le incisioni sulla roccia. È stata una grande emozione: nessuno prima di loro aveva mai raggiunto questo punto: “appena” 160 anni fa percorrere la Cresta del Leone era tanto arduo quanto lo è oggi raggiungere Marte! Saliamo rapidi, di conserva, su per la “Grande Corde” e poi per la scala Jordan. Alle 14 siamo alla croce sulla cima italiana. La vista spazia su Cervinia, Zermatt, sui laghi celesti della conca del Breuil e poi sul gruppo del Rosa, la Dent Blanche, il Gran Combin e, più oltre, il Bianco. Iniziamo presto a scendere, perlopiù faccia a valle, facendo sicura solo in un paio di tratti. Siamo di ritorno al calar del sole. Dalle pareti solitarie alla civiltà: dall’alba al tramonto.
5 Maggio 2021
1. Hervé Barmasse - La Montagna dentro - Laterza - 13ª Edizione, 2015, pp.224 con illustrazioni a colori, 17,10 €.
2. Hervé Barmasse – Prossimo libro sul Cervino – Laterza - 1ª Edizione, 2021.