Sul lato opposto delle colonne d’Ercole, agli estremi confini orientali d’Europa, sorge un vulcano spento ricoperto dai ghiacci. È il punto culminante del Caucaso, la catena che separa il mar Nero dal mar Caspio e l’Europa dell’Asia. Nelle belle giornate la cima innevata è visibile da centinaia di chilometri di distanza, a nord come a sud, dalla Kabardino Balkaria alla Georgia e all’Armenia. La storia ufficiale ci racconta che è stato salito per la prima volta nel 1874, ma la sua presenza è nota da tempo immemorabile. Oggi come duemilacinquecento anni fa, le condizioni meteo variabili costituiscono il principale ostacolo alla sua ascensione. Alla fine del V secolo avanti Cristo, lungo l’itinerario tracciato da Alessandro Magno, si erano messe in marcia alcune migliaia di mercenari greci, reclutati da Ciro, desideroso di rovesciare il fratello Artaserse sul trono di Persia. La grande carovana si addentrò tra il Tigri e l’Eufrate. Vinta in battaglia e rimasta senza capi,In vetta all'Elbrus, la più alta montagna d'Europa dovette cercarsi una via per tornare al mare. L’Anabasi di Senofonte è la narrazione della vicenda fatta da uno dei protagonisti di questa “lunga marcia” di ritorno a casa dell’esercito greco, attraverso la Mesopotamia, l’Armenia e il Ponto Eusino, l’odierno Mar Nero. Nel suo vivido racconto, quasi un romanzo, Senofonte descrive le
peripezie dell’attraversamento dell’Armenia, dei villaggi sperduti tra gli alti passi innevati tra le pieghe del Caucaso. “… ma gli altri, In vetta all'Elbrusquelli che non riuscirono a finire la strada, passarono la notte senza cibo e senza fiamma. Parecchi morirono … Soldati che avevano perso la vista, accecati dalla neve, o a cui erano cadute le dita dei piedi, incancrenite dal freddo, furono abbandonati sulla via. Per riparare gli occhi dal bagliore della neve, tenevano durante la marcia una pezzuola nera davanti agli occhi; per difendere i piedi si muovevano continuamente, evitando di stare fermi un attimo solo e durante la notte scioglievano le calzature. A dormire con i sandali, infatti, i legacci penetravano nella carne e le suole gelavano intorno al piede.” Anabasi (IV, V). Come scrive l’Ecclesiaste “niente di nuovo sotto il sole”.