«Non è un paese per vecchi» rifletto tra me e me sul 737 che sta mi riportando da Timika a Jakarta, dopo quattordici difficili giorni trascorsi nella giungla e sulle montagne della provincia indonesiana della Papua, tra tribù Dani e Moni, durante l’avvicinamento e la scalata della Piramide Carstensz, “l’ottava” delle mie “7 Summits”. Ragazzo non sono più e l’infezione alla gamba, contratta per colmo di sfortuna (o per mia fortuna) l’ultimo giorno, me lo rammenta con il suo bruciore. La Papua non è il posto migliore per chi necessita di cure, data la scarsa presenza di medici e ospedali, sparsi in un territorio aspro e quasi del tutto privo di strade, ampio una volta e mezzo l’Italia. Negli altipiani centrali un’iniezione di antibiotico resta un miraggio. Tre quarti del paese sono ricoperti da un fitto manto di foresta pluviale equatoriale mentre il resto è formato da paludi costiere e catene montuose solcate da profonde valli che ostacolano gli spostamenti. Per i collegamenti interni ci si serve di piccoli bimotori, meteo permettendo, o del cavallo di san Francesco. La Nuova Guinea è un’isola di estremi, protesa nel nuovo millennio ma con radici ancora ben piantate nella preistoria. I papuani sono frammentati in centinaia di gruppi etnici, isolati dal territorio e da una babele di mille lingue. L’isola, nel suo complesso, contribuisce per quasi un quinto alla produzione aurifera mondiale, benché gli indigeni ne traggano beneficio solo in minima parte. Tra multinazionali minerarie e polizie private, cercatori d’oro e missionari, conflitti tribali e rivendicazioni autonomiste la vita non è facile in questa terra di frontiera sospesa tra vecchi miti di antropofagia e moderni modelli consumistici.
I mangiatori di carne umana sono scomparsi, eliminati dalla velocità dei cambiamenti del nostro tempo, tuttavia qualcosa del loro spirito sopravvive. All’arrivo nel villaggio montano di Sugapa ho notato un Twin Otter incidentato a lato della pista, cannibalizzato come solo in certi paesi africani può ancora avvenire. E’ ciò che resta di un avventuroso atterraggio, avvenuto qualche tempo fa in condizioni meteo pessime.
Nel paese delle nuvole può piovere anche sei volte al giorno e i piloti che aspirano alla pensione volano esclusivamente di mattina. L’incidente ha danneggiato il velivolo, travolgendo inoltre mortalmente la folla di curiosi assiepati ai bordi della striscia di terra sprovvista di recinzioni. Lo spettacolo costituito dall’atterraggio di un aereo con il suo carico di merci, casse di birra e notizie dal mondo è un evento a cui assistere da vicino, anche correndo rischi: in un luogo dove si può facilmente morire per un’infezione la sicurezza non è ancora diventata un’ossessione. Sugapa, mille anime, è anche la sede del distretto provinciale. Fornita di un posto di polizia e alcuni spacci gestiti da commercianti javanesi possiede ben tre chiese: una cattolica, una protestante e una avventista. Se il pluralismo religioso è il sale della libertà, la Papua costituisce un esempio. Così, il diligente rintocco domenicale delle campane cela l’incertezza della salvezza nell’imbarazzo della scelta.
Da Sugapa iniziamo il tortuoso cammino (lungo una cinquantina di chilometri per settemila metri di dislivello a causa dei continui saliscendi), che porta alla catena di Dugunduguoo (o Sudirman Range),dove si erge la più alta montagna dell’Oceania. Il massiccio fu avvistato dalla costa a causa del lucore dei suoi ghiacciai (in una delle rarissime giornate limpide) dall’esploratore olandese Jan Carstensz, nel 1623. La vetta è stata ribattezzata Puncak Sukarno in onore del padre della patria indonesiana Sukarno (che la “liberò” dagli olandesi nel 1962, annettendola a tutti gli effetti) e in seguito Puncak Jaya, Picco della vittoria. Tanto vale chiamarla col nome del primo europeo ad averla avvistata o, meglio ancora, con il nome con cui è conosciuta in uno dei tanti dialetti indigeni: Nemangkawi. Tanto per essere certi di aumentare la confusione.
Dicono che la destinazione non sia tanto importante quanto il cammino che ad essa conduce. Se questo è vero, l’avvicinamento alla Piramide Carstensz, ne è la dimostrazione. Oggi, per accostarsi ai superbi picchi calcarei, non ci sono alternative al faticoso trekking attraverso la foresta pluviale. E’ stato vietato il transito sulla strada privata che unisce la cittadina mineraria di Tembagapura al pozzo della riserva d’oro e rame più grande del mondo, la miniera di Grasberg. Dove sorgeva un monte, ora c’è una profonda cicatrice che chiunque può comodamente sbirciare dall’orbita con Google Earth. Estrarre oro fa male alla Terra: è una delle attività a più alta intensità energetica. La strada era usata come scorciatoia dagli organizzatori dell’ascensione alla Piramide. Il sito minerario si trova infatti a poche ore di cammino dal campo base della Carstensz, a 4200 metri di quota. Il collaudato sistema di allentare le maglie della sorveglianza con opportune mance nelle giuste tasche si è però inceppato nel marzo 2008. Probabilmente la PT Freeport-McMoran, multinazionale concessionaria a maggioranza statunitense nonché contribuente per il 2% al PIL indonesiano, ha deciso che gli alpinisti in transito nei loro precinti sono solo seccatori ficcanaso e ha rafforzato la sorveglianza. Beninteso, la Piramide Carstensz si può sempre comodamente raggiungere da Nabire in un paio d’ore d’elicottero (e ventiduemila verdoni) ma scegliere questa opzione è, a mio avviso, un po’ come chi va a fare sci-alpinismo col gatto delle nevi, non so se mi spiego.
In alternativa al trekking da Sugapa esiste un accesso dal villaggio di Ilaga. Si tratta di una settimana di cammino disagevole attraverso i territori abitati dai Dani. Alcune comitive pare siano state fatte oggetto di attacchi, determinando la chiusura dell’area al turismo per oltre un decennio. Ebbene sì, anche in questa remota porzione di mondo ci sono ribelli antigovernativi. Terroristi per alcuni, combattenti per la libertà secondo altri. Pare che il sentiero da Ilaga sia stato quello percorso da R. Messner nella sua salita di oltre venti anni fa. In ogni caso, col pretesto degli autonomisti, l’accesso alla Carstensz è stato interdetto sino al 2005, con buona pace di quanti volevano completare le “Seven Summits” con questa variante. L’accesso da Sugapa è invece più breve, almeno sulla carta, perché richiede un avvicinamento di cinque giorni. Presenta però lo svantaggio di attraversare villaggi appartenenti sia a gruppi etnici Moni che Dani, tra i quali esiste una storica rivalità che ha portato anche di recente a faide sanguinose. Si potrebbe pensare di organizzare l’avvicinamento in proprio ma sarebbe uno sbaglio. Senza l’appoggio e le aderenze di un’agenzia indonesiana abilitata la polizia locale non consentirebbe di allontanarsi. Anche disponendo d’interpreti e agenti autorizzati occorre instaurare complesse trattative per ingaggiare i portatori, contrattazioni il cui buon esito non si può dare per scontato.
Appena sbarcati sulla corta pista di Sugapa, aggrappata alla cresta di un crinale, troviamo ad attenderci un gruppo di sfaccendati in costume adamitico, vestiti del solo astuccio penico, il “koteka” ricavato da una zucca svuotata. Contrariamente a quanto si crede, il koteka non è un simbolo fallico né è in relazione allo status sociale del portatore. E’ semplicemente un comodo indumento. In effetti, in un ambiente caldo, umido e privo di detergenti i normali vestiti si sporcano presto e il contatto con la pelle causa infezioni, come ho avuto modo di sperimentare su me stesso. Questo spiega perché una parte dei Dani adulti ancora lo impieghi, nonostante le campagne di eradicazione da parte del governo, che hanno invece avuto parziale successo con i Moni, che indossano mini-short.
Nell’area del Puncak Jaya l’etnia prevalente è quella Lani (più esattamente Loma), gruppo che da millenni si è insediato negli altipiani centrali del paese. Strettamente imparentato con i Dani della valle del Baliem, ne condividono l’abbigliamento minimalista oltre che la vocazione per l’indipendenza e il sentimento anti-indonesiano. I Lani si affollano accanto a noi quasi fossimo un grande evento e ci sorprendono per la curiosità nei nostri riguardi unito all’orgoglio nel farsi riprendere. E’ un sicuro segno che di turisti ne vedono davvero pochi. Mi trovo insieme a una spedizione internazionale di sette alpinisti, unico italiano, il solo che riesce a comunicare sia in spagnolo che in inglese. Così m’improvviso interprete interno del gruppo, composto da due canadesi, un danese e tre spagnoli. Convinti come siamo di poter partire immediatamente, restiamo sorpresi dalla lunghezza delle trattative per l’ingaggio dei portatori. La selezione e il reclutamento hanno luogo nella stessa baracca dove siamo alloggiati. Il signor Kato, un albino di etnia Moni, interprete e negoziatore per conto dell’agenzia, assume quasi esclusivamente portatori Moni, scegliendoli dal suo elenco. Sfumata l’eccitazione del primo giorno, passato curiosando lungo la sola strada del villaggio accanto a imperturbabili maiali scuri e caratteristici personaggi in koteka desiderosi di mostrare la loro abilità nel colpire un bersaglio con arco e frecce, iniziamo a perdere la pazienza. Il desiderio comune è iniziare al più presto la marcia. Tuttavia, verso la conclusione delle trattative, un vociare crescente ci avvisa che qualcosa non sta andando per il verso giusto. In pochi attimi ci ritroviamo circondati da una folla urlante, di cui non riesco a comprendere le ragioni. Dopo un paio ore passate praticamente in stato d’assedio, riesco finalmente a farmi spiegare l’oggetto del contendere: i Dani messi da parte chiedono una compensazione economica per lasciarci partire (precedente che l’agenzia non vuole affatto creare). Molte promesse (e dollari) più tardi, a pomeriggio inoltrato, giunge finalmente l’accordo sindacale che prevede il versamento di un anticipo agli esclusi, i cui nomi sono diligentemente annotati con l’impegno di sceglierli in futuro. Per non attraversare il territorio degli esosi Dani, che pare abbiano triplicato le loro richieste in meno di un anno, le nostre guide Moni ci garantiscono un nuovo percorso, più breve, che evita accuratamente i villaggi degli scontenti. Pur di riuscire finalmente a metterci in cammino non indaghiamo oltre, fiduciosi che le nostre guide sappiano il fatto loro. Così, alle quattro del pomeriggio del giorno seguente l’atterraggio a Sugapa partiamo accompagnati da quaranta portatori scelti.
Iniziamo la discesa nel fango, diretti a fondovalle, tra campi coltivati a patate dolci e manioca, lungo uno stretto sentiero tortuoso. Prima che sopraggiunga il buio riusciamo a guadare il fiume e raggiungere il minuscolo villaggio di Kusagee, arroccato in una piatta radura sopra un cucuzzolo. Siamo gli ospiti d’onore, al centro dell’attenzione, circondati da bambini di tutte le età che si affollano attorno a noi.
Dubito che da questo posto sia mai passato qualche turista. Per l’occasione, ci viene concesso di alloggiare nell’unica baracca disponibile (capanne tradizionali a parte). E’ una costruzione in legno a pianta quadrata, un vero lusso, opinione condivisa anche dalle pulci. Domani ci lasceremo alle spalle anche le ultime zone abitate per inoltrarci nel folto della foresta. Partiamo di buon mattino, sotto un cielo bigio che promette solo pioggia. Un’ora dopo, attraversiamo il “villaggio” di Mbunaopa, quattro capanne sbilenche addossate agli alti steccati che difendono le coltivazioni. Poi il percorso si fa duro, fangoso, fatto di saliscendi e passaggi sghembi sopra i tronchi degli alberi caduti, gli unici varchi possibili nella fitta foresta, una sorta di autostrada vegetale. Sotto la volta degli alti alberi la luce si muta in penombra. L’aria calda e umida mi fa sudare in abbondanza. Finisco in un attimo il contenuto della borraccia e a metà giornata, spinto dalla sete, sono costretto a riempirla attingendo a un rigagnolo che scorre pigro in mezzo alla vegetazione. Ci butto dentro una pastiglia di sali d’argento e dopo la classica ora me la bevo d’un fiato, troppo disidratato per aspettare la bollitura serale. Salendo mi trovo immerso nella nebbia.
L’odore umido della vegetazione marcia che mi circonda si fa pungente, ma presto ci faccio l’abitudine. La cosa più fastidiosa sono i periodici rovesci, che giungono attenuati ma anche trasformati in una densa umidità appiccicosa. Puntuale, la pioggia riappare sempre dopo le quattro del pomeriggio e per non bagnarci completamente ci dobbiamo fermare a montare la tenda. La foresta è un intrico vegetale né vivo né morto che cresce su sé stesso, fradicio e corrotto, privo di una superficie solida ben identificabile su cui posare i piedi. Una chiazza di muschio cela un buco dove si sprofonda sino a mezza gamba, rischiando la caviglia, mentre ogni sorta di radici, liane e arbusti intralciano il cammino. Davanti a me procedono le guide armate di machete che cercano di allargare il passaggio. Quando il terreno diventa ripido mi devo arrampicare aggrappandomi con le mani alle radici terrose. Me le ripulisco sul soffice muschio verde che tappezza ogni centimetro quadro di corteccia, quasi con voluttà, accarezzando le minuscole gocce di pioggia che scintillano come smeraldi a ogni sciabolata di luce.
Camminare in equilibrio sui tronchi viscidi è più facile con l’aiuto di bastoncini telescopici, di cui sono però sprovvisto. Maledico la mia imprevidenza mentre cammino sulle uova, consapevole che una scivolata può avere gravi conseguenze. Cosa che purtroppo capita a Bill, un medico canadese del gruppo, a cui manca solo la Carstensz per terminare le Seven Summits. In seguito a una caduta accusa forti dolori a un fianco. Diagnosi: costola incrinata, viaggio terminato. Accompagnato da due portatori è costretto a ritornare sui propri passi con le lacrime agli occhi. Una scelta previdente, considerando che siamo appena al secondo giorno! La giungla ricopre in modo uniforme monti e valli sino alla quota di 3500 metri circa, dove compaiono le prime radure erbose, simili ad acquitrini, inframmezzati a un fitto sottobosco di bassi arbusti. Rimpiango di non aver indossato le ghette, che avrebbero impedito agli scarponcini (e ai miei piedi) d’inzupparsi. Per i portatori e le guide questo non è un problema perché tutti, senza eccezione, procedono a piedi nudi. Sembrano piedi normali, ma non è così. Li osservo incredulo pestare come se nulla fosse aculei appuntiti che sporgono dal terreno, ciascuno perfettamente capace di bucarmi lo scarpone se distrattamente pestato con forza. Dopo sette ore ininterrotte di marcia si avvicina la sera e occorre preparare il campo per la notte, ricavando una radura nel sottobosco a colpi di machete. Oggi siamo saliti di mille metri, e abbiamo percorso sette chilometri e mezzo in linea d’aria. Sembra poco, ma qui il percorso più breve tra due punti non è una linea retta e il gps non aiuta affatto a trovare la strada.
Montate le tende, ci sdraiamo sui moduli di espanso, anche se il terreno ondulato e ingombro di felci non è fatto per agevolare il riposo. I nostri accompagnatori si riparano sotto un telo di plastica sospeso a rami tagliati sul momento e accendono il fuoco, sedendosi a proprio agio su un tappeto di morbide frasche appena falciate. Un fumo densissimo e soffocante esce dal riparo e avvolge tutto l’accampamento. Non riesco a capire come sia possibile riuscire a respirare lì sotto, quando solo entrare per posare vicino al fuoco gli scarponi bagnati mi provoca un attacco di tosse. Riesco a sbirciare la cena che stanno preparando: patate dolci bollite accompagnate da un po’ di biscotti, mentre la nostra è il contenuto riscaldato di alcune scatolette. Nonostante la stanchezza e la scomodità del giaciglio, cado in un sonno profondo fino all’alba quando le voci dei portatori mi destano. Smontato in fretta il campo riprendiamo la marcia, un continuo saliscendi tra gli alberi. Quando possibile, procediamo più spediti risalendo il corso dei ruscelli, le cui acque virano al marrone pallido a causa del tannino delle piante. La corrente però sembra limpida e l’acqua è fresca e incontaminata. Questa volta bevo a sazietà. Al diavolo le precauzioni. Non ci sono tracce di animali, solo gli uccelli tradiscono la loro presenza con versi striduli che giungono dall’alto.
Approfitto delle brevi soste durante la marcia per conoscere meglio i nostri portatori, iniziando dal facile: i nomi propri. Comunicare non è semplice e qualche risultato si ottiene per lo più a gesti, anche se non sempre i segni hanno la medesima interpretazione. I quattro accompagnatori indonesiani parlano inglese ma non conoscono il dialetto locale e sono di scarso aiuto. Tra i portatori solo pochissimi conoscono qualche parola d’inglese. Botius è il sordomuto del gruppo, molto bravo a esprimersi mimando. Il portatore che ha in carico il mio zaino è un tarchiato piccoletto che indossa una T-shirt sotto uno sbiadito giaccone di cuoio nero di foggia occidentale. Si chiama Damianus ed è di gran lunga il più elegante di tutti. Piedi d’acciaio rigorosamente nudi e un sorriso aperto incollato sotto al naso camuso. Inizio a capire come i nomi indigeni siano stati affibbiati dai missionari saccheggiando i patronimici della Bibbia. Non saprò mai se impiegano anche nomi tradizionali. Al nostro seguito ci sono tre donne, le vivandiere del gruppo, che portano un piccolo carico nella tradizionale rete appoggiata sulla schiena e trattenuta sulla fronte da una fascia. La più giovane approfitta delle pause per adornarsi i capelli con fiori di campo appena colti: la civetteria femminile non conosce frontiere.
Ogni mattina, prima d'iniziare il cammino tutti s'inginocchiano e ascoltano una preghiera recitata a turno dai capi. Sono rappresentate le principali confessioni cristiane e le preghiere sono tante quante le fedi. Non appena il primo gruppo termina l’orazione, inizia a pregare il secondo, mentre tutti ascoltano in silenzio, nel massimo rispetto reciproco. I missionari hanno fatto davvero un gran lavoro. Noto l’assenza di discussioni o lamentele di qualsiasi genere tra i portatori, anche quando le tappe sono lunghe o se qualcuno ha qualche problema ai piedi. Di rado alzano la voce. Questa è gente dura, abituata ad arrangiarsi, che tuttavia possiede uno sviluppato senso di solidarietà. Agiscono di concerto senza bisogno di parlare. Un po’ a gesti e un po’ a parole riesco a chiedere quando è previsto l’arrivo al campo base. L’unico portatore che conosce qualche parola in inglese mi risponde “Saturday”. Impossibile! Devo aver capito male, non possono mancare altri cinque giorni! Dovrebbero mancarne due, tre al massimo! Chiedo conferma alle guide indonesiane, che cascano dalle nuvole. Alla sera del terzo giorno, accampati presso un torrente, decidiamo di prendere in mano la situazione, invitando in modo formale quelli dell’agenzia a dirci dove ci troviamo e quanto manca. Messi alle strette, devono ammettere che non ne hanno la minima idea: stiamo tutti sperimentando un nuovo itinerario che doveva essere più breve, però ora sospettano di essere stati ingannati dagli indigeni quanto ai tempi. Sono inoltre preoccupati che i viveri non bastino per il ritorno. Le guide locali per fortuna sembrano sapere il fatto loro. Ci rendiamo conto come i giorni necessari siano proprio quelli annunciati dal portatore. Non ci resta che fare buon viso, però decidiamo di avvisare via satellitare la sede di Jakarta che, Dani o meno, il ritorno a Sugapa dovrà avvenire lungo la via più breve, quella da Suangama. Che mandino pure Mr. Kato a trattare il diritto di passaggio mentre noi completiamo l’avvicinamento e la salita.
Ci sono giorni in cui i luoghi assomigliano a reliquie che si ostinano a respirare. Il quarto giorno inizia così, in salita. Rami spessi ostacolano il cammino e risulta evidente che da anni nessuno è passato da queste parti. Andare avanti è sempre più difficile… non so per quanto potremo proseguire. Alla fine della mattina incrociamo la pista “normale”, poco più di una traccia nell’erba intrisa di fango, che però ci sembra un tappeto dorato. Gli alberi ad alto fusto sono sempre più radi e all’improvviso, scavalcato un crinale, l’orizzonte si allarga. Il cielo è piombo fuso, ma in lontananza, confuse tra le nebbie candide, scorgiamo per la prima volta le creste ammantate di ghiaccio della catena Sudirman, la spina dorsale della Nuova Guinea. La vista della meta c’infonde speranza e nuove energie per proseguire ma dobbiamo prima scendere per attraversare la valle del fiume Kemabu, quindi risalire verso i laghi Carson. La tappa richiede un’altra dura giornata, questa volta su un terreno più facile, al termine della quale ci accampiamo accanto ad un lago dalle acque scure, all’altezza di 3750 metri.
La maggior parte dei portatori si ferma qui. Solo i più forti e meglio equipaggiati ci accompagnano nell’ultimo giorno di marcia, per via del terreno roccioso e del freddo crescente che impone un vestiario pesante. Con la comitiva così ridotta, c’inerpichiamo lungo il sentiero ripido e sassoso che porta al valico Nuova Zelanda. La pioggia battente è sempre più gelida e cade mista a nevischio. Il suolo erto e bagnato impone una vigile attenzione. Nuvole basse ci avvolgono e coprono il paesaggio. Scendendo dal passo la foschia turbinante si apre un poco, rivelando la ripida discesa e la mole grigiastra della Carstensz. Il sito del campo base è in riva a un laghetto turchese. Ci sono parecchi laghi nei paraggi, residui dei ghiacciai che sino a non molti secoli fa occupavano la valle, oggi ritirati fin sulla cresta. L’arretramento risulta evidente dalle morene brulle e dalle rocce chiare situate più in alto, liberate dai ghiacci in tempi relativamente recenti. Sul lato opposto della valle domina invece la parete della Piramide Carstensz, una lastra inclinata di calcare grigio alta cinquecento metri, riconoscibile per via della cresta sommitale a dente di sega. Quando si fa scuro, le brume all’estremità ovest della valle assumono una tinta giallastra, a causa della luce riflessa delle lampade allo iodio che illuminano giorno e notte il giacimento aurifero di Grasberg. Nel silenzio della notte si avverte distintamente il sordo brontolio delle attività incessanti della miniera. Siamo fuori dal mondo eppure da molti decenni la febbre dell’oro ha portato altri uomini in questo angolo sperduto di Nuova Guinea.
Il giorno successivo, io e due alpinisti spagnoli, Paco (Francisco) Briongos dell'Estremadura e il Catalano Albert Bosch, anziché dedicarci al riposo nel campo base come previsto, decidiamo di recuperare una giornata sul nostro risicato programma salendo la Carstensz per nostro conto, pur sconsigliati dalle guide. E’ una sfida aperta alle regole dell’agenzia, una ritorsione per averci fatto dannare durante l’avvicinamento, per aver colpevolmente allungato un itinerario già duro solo al fine di risparmiare sui costi.
Ultimo ostacolo resta l’incertezza del meteo. Attendiamo che smetta di piovere sino alle quattro e mezzo del mattino, poi lasciamo le tende e in un’ora raggiungiamo l’attacco seguendo alla luce delle lampade frontali un evidente sentiero. La salita avviene lungo un sistema di cenge e camini che solcano obliquamente il fianco della montagna.
La superficie rocciosa è ruvida e scabra, dilavata dalla pioggia che ha scavato nel calcare profondi solchi e canne d’organo. L’arrampicata mi ferisce i polpastrelli e devo infilarmi i guanti di protezione. Trovo in parete abbondanti corde fisse ma non le uso se non per assicurarmi nei tratti verticali. Alle sette del mattino raggiungo la cresta. La visibilità è ottima. In lontananza ammiro il pozzo circolare della miniera e la strada che spiraleggia verso il fondo, percorsa da camion grandi come case che nella distanza assomigliano a formiche operose. Risalendo la cresta verso la vetta supero non senza fatica un profondo intaglio grazie ad una corda orizzontale a cui devo sospendermi. La chiamano “tirolina” ed è il passaggio chiave della via normale di salita. L’esposizione e il panorama sono da cartolina.
Dopo alcuni altri facili passaggi su roccia giungo sul punto più alto alle otto, subito seguito dai miei due compagni. Dalla vetta, volgendosi a sud, si ammira la pianura ricoperta dalla giungla. Laggiù, da qualche parte, a una sessantina di chilometri di distanza, sorge la cittadina di Timika, il nostro punto di partenza. Incredibilmente, sulla cresta sommitale c’è campo e così ci togliamo la soddisfazione di annunciare il successo con un normale telefonino Gsm.
Facciamo appena in tempo a scattare alcune foto che le nubi salgono intorno a noi, lasciandoci nella nebbia. In poco più di due ore rientriamo al campo base, in tempo per il brunch. La notte, stellata e limpida, annuncia un nuovo giorno eccezionale. Così la mattina seguente Paco e io ci leghiamo in cordata e andiamo ad aprire una nuova via sulla montagna di fronte. Il sole diretto brucia, asciugando in fretta il calcare tagliente. La Carstensz si staglia davanti a noi sullo sfondo di un magnifico cielo azzurro, sul lato opposto della valle. Dopo alcuni tiri di V e VI raggiungiamo il ghiacciaio e lo percorriamo poco sotto la cresta. Un evento così eccezionale non può durare a lungo e infatti già dalle undici il cielo inizia a coprirsi. Le nuvole ci avvolgono poco dopo e verso l’una inizia a nevicare, con fiocchi misti a grandine.
E’ tempo d’iniziare la discesa, anche se mancherebbe poco per finire. Non so se siamo i primi a compiere la traversata ovest-est, ma di certo questo insidioso ghiacciaio moribondo lo hanno attraversato in pochi. Battezziamo la via “Amakané, amigo” un misto tra spagnolo e dialetto locale che significa “salve amico, buona giornata”.
Scendendo sotto i 4600 metri la grandine si trasforma in pioggia, che presto inzuppa me e Paco sino alle mutande. Rientriamo al campo base mentre l’altra parte del gruppo è ancora impegnata nella salita della Carstensz. Verso sera ci ritroviamo tutti insieme al campo e festeggiamo il successo. Il giorno dopo mi sento stranamente leggero. Sono felice per come sono andate le cose. Se non fossimo arrivati al campo base lungo la via più lunga, forse non avrei mai pensato di tentare una salita supplementare.
Lasciamo il campo base di buon umore, ricevuta l’assicurazione di poter tornare a Sugapa via Suangama. Per fare più in fretta decidiamo di rientrare in soli quattro giorni, forzando le tappe a costo di aumentare le ore quotidiane di marcia. E’ un errore, e lo scopriamo presto. Tutto sembra procedere bene sino all’ultimo giorno ma, a poche ore dal traguardo, forse a causa delle defatiganti ore di cammino o magari a causa dell’aggravamento delle vecchie infezioni, il piede sinistro del medico canadese Andreis si gonfia come un pallone, costringendo i portatori a trasportarlo in barella per gli ultimi chilometri. Anche io accuso un principio d’infezione a una gamba, per alcuni graffi malamente curati.
Al termine della tappa conclusiva, lunga dieci ore, arrivo a Sugapa zoppicando, ma sempre in testa accanto a Paco e Albert che, assai sportivamente, restano con me sino alla fine. Il giorno dopo il Twin Otter può fortunatamente decollare per Timika e in coincidenza riusciamo ad imbarcarci sul volo di linea per Jakarta. Quella che avevo sottovalutato come una semplice passeggiata nella giungla si è invece rivelata un’autentica Avventura, per buona sorte a lieto fine.
Quelle sette ore scarse passate sulla Carstensz, tra salita e discesa, costituiscono certo l’obiettivo e lo scopo del viaggio, ma sono niente se confrontate con i preparativi e l’avvicinamento. Sono felice di aver conosciuto compagni di viaggio formidabili e sfiorato una cultura millenaria in rapida trasformazione, in bilico tra preistoria e modernità. La vetta è stata solo un pretesto. La conoscenza e la voglia di giocare sono il solo e durevole risultato.
Novembre 2008