Il profumo dei panini freschi di forno che ci accompagna durante il trek di due giorni verso il campo base dell'Alpamayo mi rammenta, ove ce ne fosse bisogno, che Adriano e io siamo ben lontani dall'Asia e dai suoi sapori speziati. Per una volta, ne sono contento! Mi conforta il pensiero che questi tondeggianti pezzi di pane costituiranno il carburante per la nostra salita, una volta generosamente imbottiti di chorizo e formaggio. Poiché però non di solo pane (e salame) vive l'uomo, abbiamo scorte di pasta, sugo al pomodoro, tonno in scatola e patate per la minestra (tutto rigorosamente acquistato in loco). Questi sapori familiari ci forniranno le calorie necessarie per superare i 1250 m di dislivello per 20 km di sviluppo che separano il villaggio di Cashapampa dal campo base. Dai boschi del campo base al ghiacciaio su cui si installa il campo uno il dislivello è simile a quello che c’è tra Cashapampa e il campo base, con la differenza che la pendenza sale notevolmente. Risaliamo una gigantesca morena che termina sotto rocce granitiche montonate dove probabilmente sino a pochi decenni fa scorreva ancora il ghiacciaio. Ancor più in alto, la via appare sbarrata dalla cresta merlettata di ghiaccio che unisce l'Alpamayo al vicino Quitaraju: in pratica si tratta di un passo, ma che passo! Negli ultimi cento metri il pendio del ghiacciaio aumenta gradualmente sino a sfiorare la verticalita', tra seracchi pensili e terminale spalancata. Un paio di tiri ci permettono di raggiungere il "passo" di 5560 m: sull'opposto versante lo sguardo spazia su un'ampia conca glaciale ai piedi della parete nord del Quitaraju e della sud-ovest dell'Alpamayo. Poche decine di metri al di sotto del passo, su questo versante assai meno ripido, si montano le tende del campo uno, comune alle due montagne. Essendo a inizio stagione, troviamo solo tre tende al campo uno: 4 polacchi e 3 austriaci. La Via dei Francesi all'Alpamayo appare ben innevata e priva di corde fisse. La cordata dei polacchi sta scendendo e gli alpinisti appaiono come puntini neri sullo sfondo della parete di ghiaccio immacolato. Si trovano ancora molto in alto e giungeranno al campo uno a notte fonda, fortunatamente sani e salvi! Il "giorno" dopo, si fa per dire, tocca a noi salire. Lasciamo il campo all'una di notte, sotto il nastro di stelle della Via Lattea, non contaminato dalla luce lunare. L'esperienza degli ultimi giorni ci ha mostrato che con le prime ore del mattino sopraggiungono le nubi che avvolgono le vette circostanti, per cui occorre fare presto se si vuole vedere il panorama. Meno di un'ora dopo aver lasciato il campo raggiungiamo la terminale, per fortuna alta poco più di un metro in questo periodo: ci leghiamo e iniziamo il primo dei sette tiri da sessanta metri che portano sulla cresta sommitale. Seguiamo il fondo di un ripido canale di neve e ghiaccio che sale tra due rigole al centro della parete. Mano a mano che saliamo, vediamo i bordi del canale restringersi intorno a noi, mentre la parete si fa via via più ripida: dai 60° iniziali agli 80° dell'uscita. Negli ultimi venti metri il canale si trasforma in un camino di ghiaccio con le pareti così ravvicinate da poterle toccare e aiutarsi con una salita in opposizione. Il couloir sbuca in cresta: un aggregato di cavolfiori di ghiaccio ammucchiati gli uni sugli altri come una collana di perle. Da ambo i lati si aprono strapiombi. Per fortuna la goulotte della via dei francesi termina a una decina di metri dal fungo più alto. Ancora un delicato passaggio, in equilibrio su una lama di ghiaccio ripido, e poi il filo di cresta si allarga da qualche decina di centimetri a una piattaforma grande quanto una tavola da pranzo, strapiombante su tre lati e orlata da cornici invisibili. E' l'alba. Un pallido sole fa capolino tra le nubi all'orizzonte, mentre un'aria birichina ci costringe a girarci controvento per ripararci coi nostri corpi dalle sue gelide carezze. Al nostro livello, a quasi 6000 m, un mare di nubi preclude la vista di tutto ciò che è in basso, a eccezione della cresta sommitale, che scompare poco sotto, avvolta dalle nubi. Unico dettaglio a noi visibile, cresta a parte, è l'inconfondibile e lontana silhouette dello Huascaran, la montagna più alta della Cordillera e di tutto il Perù, la cui scura parete nord affiora dal mare lattiginoso che ci circonda come un'isola solitaria. Pazientiamo mezz'ora in vetta ma il mare di nubi non si dissolve e così, a malincuore, non ci resta che tuffarci in basso, nella foschia indistinta della nube, dopo aver ammirato per pochi istanti l'azzurro del cielo col sole incastonato. Meraviglioso!
Marcarà – 24 Giugno 2015