Il prologo si è avuto al telefono, in un afoso pomeriggio di fine luglio. Avventure mi ha contattato per un viaggio-spedizione in Ecuador, sui vulcani Cotopaxi e Chimborazo. «Ma sei in grado di farlo?» E' questa la traduzione, semantica anche se non letterale, della domanda di un preoccupato Sandro incerto se un capogruppo sconosciuto e scelto, diciamo così, sotto la pressione delle circostanze possa essere all'altezza di un viaggio relativamente impegnativo. Rassicurato Sandro giocandomi la reputazione con asserzioni tranquillizzanti riguardo ai miei trascorsi alpinistici & andinistici sono riuscito a farmi confermare il viaggio. Le prime difficoltà si sono presentate puntuali come la morte all'appuntamento a Roma Fiumicino, sotto forma di proteste del gruppo che in blocco aveva scelto Milano Malpensa come aeroporto di partenza e si era visto spostare "manu militari" l'imbarco nella capitale. Goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato lo scalo a Milano, prima di proseguire alla volta di Caracas. Ho fatto non poca fatica per contenere le ire di chi minacciava lettere infuocate contenenti accese proteste nei riguardi dell'organizzazione. Per fortuna la sosta di un giorno in Venezuela, accolti da una pioggia sottile ed insistente, ha contribuito non poco a raffreddare gli ardori. Salendo lungo l'autostrada che dall'aeroporto Maiquetia conduce fino a Caracas, a 900 metri d'altezza, minute goccioline di pioggia scivolavano sul parabrezza crepato del vetusto taxi finendo dentro al finestrino lasciato aperto per avere un po' di refrigerio. L'autista, un nero dei caraibi, dietro nostra specifica richiesta si è dilungato a spiegarci come oggi, in Sud America, siano molto più alla moda balli tipo Salsa e Cumbia piuttosto che Merengue e Calypso, danze demodé scimmiottate oramai solamente in Europa.
Vista l'ora ci siamo indirizzati subito all'Hotel Tampa, a Sabana Grande. Questo è un quartiere commerciale e turistico, relativamente sicuro in una città blindata come Caracas, letteralmente assediata dalle favelas (qui chiamate ranchitos). La garanzia di poter lasciare il bagaglio in albergo senza correre il rischio di vederlo scomparire vale, a mio avviso, il maggior costo del pernottamento in un hotel che offra standard minimi di sicurezza. La mattina dopo ci siamo svegliati sotto un cielo umido e grigio. In Agosto la stagione calda rende opprimente il clima sulla costa. Spesso piove più volte al giorno. Dopo una visita d'obbligo alla casa del Libertador Simon Bolivar abbiamo lasciato il Venezuela, diretti a Quito via Bogotà.
L'arrivo a Quito è particolarmente suggestivo di notte. All'improvviso ci si trova a sorvolare i sobborghi periferici, le cui strade illuminate da lampade allo iodio sembrano delimitare un reticolo di piste d'atterraggio, così vicine da poterle quasi toccare mentre la turbolenza fa traballare l'aereo. L'aeroporto internazionale Sucre è situato all'interno della città e il corridoio d'atterraggio rasenta i tetti delle case per la necessità di evitare le alte montagne che a destra come a sinistra chiudono Quito in una valle lunga e stretta. L'autostrada dei vulcani è costituita proprio da queste due cordigliere vulcaniche parallele che racchiudono la Sierra, un altopiano lungo più di 300 km largo 30 con un'altezza media di 3000 mt, al cui centro si allunga Quito, capitale sovrastata dal Pichincha, vulcano attivo che in tempi storici ha ricoperto la città con ben 40 cm di ceneri.
Trascorsi due giorni, dedicati alla visita della città, ci siamo spostati verso Nord per ammirare le lagune di San Pablo e di Cuicocha nelle cui gelide acque blu cobalto si specchia l'omonimo vulcano. Il tramonto ci ha sorpresi immersi nelle calde acque termali di Chachinbiro intenti in abluzioni propiziatorie e in riti di purificazione (dodici ore in pullman lasciano qualche segno).
Il pernottamento ad Otavalo si è reso necessario onde poterci alzare in tempo utile per visitare l'antelucano mercato del bestiame, appena fuori città. Ci siamo in seguito trasferiti in centro, correndo il rischio di smarrirci tra le bancarelle e la folla eterogenea con i suoi molteplici colori. Anche se i turisti venuti apposta come noi per fare fotografie si incontravano ovunque, questo è un mercato degli indios per gli indios. I contadini che si vedono per strada, accovacciati a ridosso dei muri, vengono all'alba dalle zone più sperdute della Sierra per vendere i loro poveri prodotti e ritornano solo una volta a settimana. Questa gente è dolorosamente e definitivamente reale, poco o per nulla toccata dalla presenza, per non dire invadenza, di noi curiosi spettatori alieni.
Dopo il bagno di folla, il dovere ci ha chiamati a Baños, paese ai piedi del Tungurahua, per tentare la prima salita di acclimatamento, propedeutica alle successive. E' questo un vulcano di poco superiore ai 5000 mt., al confine occidentale del Parco Nazionale Sangay, vale a dire sulla soglia dell'Amazzonia. Questa posizione geografica particolare lo rende sovente avvolto nelle nubi, impossibile da ammirare nella sua interezza. Da Pondoa siamo saliti al rifugio Martinez a 3850 mt di quota, poco oltre il quale la nuvole impedivano di vedere alcunché. Il rifugio, nascosto nella vegetazione tropicale che a queste quote è ancora lussureggiante, assomiglia ad una casetta trasportata qui per incanto da un libro di fiabe dei fratelli Grimm. Guardato in permanenza da tre cagnolini scarni che sopravvivono solo grazie all'elemosina dei visitatori, è privo di brande e di coperte. Al Martinez si dorme al piano superiore direttamente sul piancito d'assi in legno. Qui non c'è molto da fare, la noia è in agguato, ed è meglio aver dietro le carte. Così, in mancanza di alternative ma confortato da un sole che a tratti faceva capolino tra le nubi ho deciso di fare una salita esplorativa. Sfortunatamente oltre i 4400 mt le nubi ed il forte vento mi hanno impedito di proseguire, tuttavia con il bel tempo (cosa peraltro rara da queste parti) in altre due ore sarei riuscito ad arrivare in cima.
Rientrato al rifugio ho preparato il materiale per l'ascensione, unendomi poi al gruppo per una frugale cena. La giornata si è conclusa con un magnifico tramonto quando il sole infuocato si è immerso dietro al Cotopaxi ed ai profili fantastici di un'impossibile catena montuosa formata dalle nubi all'orizzonte. Scomparso il sole, il freddo si è fatto subito intenso. Non avendo portato il sacco a pelo per motivi di ingombro non mi è restato che scendere dabbasso e sdraiarmi vestito su di una panca in attesa della partenza. Fuori il tempo era variabile e mentre il chiaro di luna illuminava a tratti la silhouette dei monti circostanti le nubi risalivano rapide e leggere sui versanti superiori del vulcano, nascondendomi la cima allo sguardo. La salita è stato un faticoso avanzare nel buio tra la pomice e gli sfasciumi con i frontali che rischiaravano il cammino per pochi metri soltanto. Tutto intorno c'erano solo tenebre, nebbia e vento. La vetta pareva un punto sospeso nel nulla, riconosciuta come tale solo dalla definizione, vale a dire che ogni direzione conduceva unicamente verso il basso. Scendendo di corsa mi sono chiesto che cos'era a spingerci fin lassù dovendo poi fuggire subito a gambe levate. La risposta, sempre che esista, era nel sibilo del vento e nelle nubi turbinanti che ci circondavano.
Rientrati a Baños ne ho approfittato per fare scorta dell'illegale Puro de Caña. Si tratta di un fortissimo liquore, oltre 60°, distillato di canna da zucchero dall'aroma caratteristico, che si può trovare sfuso presso uno dei tanti chioschi sulla strada dove viene venduto a circa 2000 £ al litro. Per accertarsi che non sia stato allungato basta eseguire la seguente semplice prova, che si può fare alla presenza del venditore medesimo. Se ne versa un poco in un tappo di bottiglia quindi si avvicina un fiammifero acceso. Se il liquido prende fuoco e continua a bruciare senza spegnersi, allora il liquore è autentico e non annacquato. Per chi ha dubbi aggiungo che non contiene alcool metilico, perché proviene da distillerie controllate della zona di Puyo, da cui viene venduto clandestinamente allo stato puro (da cui appunto il nome) per aggirare la legislazione che impone un contenuto alcolico massimo dei liquori di 40°. Questo fuoco liquido, chissà perché, è invariabilmente più apprezzato come drink che come combustibile.
Per rispettare la severa tabella di marcia autoimposta onde gestire al meglio i pochi giorni a disposizione ci siamo trasferiti al Parco Nazionale Cotopaxi, punto di partenza per l'ascensione al vulcano. Qui l'imprevisto si è manifestato nella persona del guardaparco che, in un eccesso di zelo, si rifiutava di farci proseguire verso il rifugio Ribas. A nulla è valso spiegare che la nostra guida ci aspettava al rifugio: in mancanza dell'apposita autorizzazione turistica non si poteva passare. Consapevoli della somiglianza tra un biglietto scritto ed un biglietto di banca (in fin dei conti sono fatti entrambi di carta, sia pure stampata con colori e simboli differenti), abbiamo proposto uno scambio in tal senso al solerte funzionario, che con un'elasticità degna di ben altre mansioni ha prontamente accettato togliendo personalmente la catena che ci sbarrava la strada. Proseguendo fin dove ci è stato possibile, siamo più volte scesi a spingere l'automezzo quando manifestava, pure lui poverino, sintomi d'anossia. Siamo arrivati al Ribas al tramonto, giusto in tempo per bere un tè e coricarsi fiduciosi, rassicurati dal tempo che pareva volgere al bello. Essendomi svegliato intorno alle ventidue causa il freddo e per altri motivi fisiologici ne ho approfittato per dare uno sguardo fuori: era tutto sereno. Così tranquillizzato sono rientrato in rifugio, aspettando la sveglia senza più riuscire a dormire. A mezzanotte nevicava.
Abbiamo fatto la prima parte della salita nella nebbia avvolti da un leggero nevischio che, trattenuto dall'umidità gelata della traspirazione si incollava agli abiti, rendendoci tutti simili a goffi pupazzi di neve. Superato quel punto immateriale sull'isobara dei 5500 mt che divide l'atmosfera in due parti di uguale pressione, in virtù di quella fortuna che ci ha sempre accompagnato sin dall'inizio del viaggio, il cielo si è aperto con le nubi turbinanti in basso ed una cristallina cupola di stelle sospesa allo zenit. Sulle nostre teste, là dove nessuna montagna può arrivare, una suggestiva cascata di meteore scintillanti illuminando la notte davano vita nel cielo ad un gioco di continui inseguimenti. Man mano che la luce dell'aurora avanzava, il nostro cammino verso il punto più alto dell'immenso cono gelato diveniva sempre più faticoso al punto che si è avuta la netta sensazione di trascinare un galeone spagnolo carico all'inverosimile di tesori e spezie con l'ancora alla fonda (i primi effetti del mal di montagna). E un così titanico sforzo non poteva non fare almeno una vittima che la Sorte ha personificato in Mapelli Licio. Slegatosi, il nostro si sbarazzava dello zaino e gettandosi a terra farfugliava di non poter proseguire e di voler tornare indietro. Pochi minuti di riposo unito al conforto del gruppo «Rimani qui che ci si rivede al ritorno» hanno fatto il miracolo: attingendo alle residue energie psichiche e a quelle abbondanti del fisico, Licio riprendeva a salire, ritrovandoci in cima per la foto di gruppo. Qui la fatica è lentamente svanita, lasciando spazio ad una piacevole sensazione di appagamento. La nostra vista è corsa libera, spaziando dalle distese amazzoniche ai lontani picchi del Cayambe, degli Ilinizas e dell'imponente Chimborazo con la mente che si imprimeva quel luogo bellissimo, gelido e desolato, sovrapponendo la realtà ad uno scenario tante volte immaginato in maniera tale da non poter più separare nel ricordo di oggi la realtà dalla fantasia.
Frattanto la giornata era divenuta bellissima. Scendendo riuscivo a percepire con il volto l'alzarsi graduale della temperatura dell'aria, unita ad una soave sensazione di leggerezza che durante il rientro al rifugio si è trasformata in un feroce mal di testa. L'interno del Ribas era gelido e questo non faceva che aggravare la situazione. Sono uscito fuori ad aspettare gli altri al sole.
La visita al mercato di Saquisili è stata una pausa momentanea tra la salita al Cotopaxi e quella al Chimborazo. Il bel tempo ci ha infatti suggerito di tentare subito anche la seconda cima, nonostante i rischi di un concatenamento troppo rapido. Trasferitici a Riobamba siamo partiti per il rifugio Whymper in nove su dieci, eccezion fatta per Locatelli Simona che, ritenendo di averne avuto a sufficienza sul Cotopaxi, ha preferito restare in albergo in compagnia dell'autista Juan Lopez.
Il fattore peso, elemento decisivo per la riuscita di questo genere di ascensioni, non ha impedito ad alcuni di noi (in particolare ai tre bergamaschi) di munirsi di ampie scorte di quei generi di conforto a cui la forza della consuetudine vieta la rinuncia. Così Vavassori Sabrina non ha voluto (o potuto) fare a meno della sua crema Novi al cioccolato che, debitamente spalmata sul pane, è riuscita ad ingurgitare persino al rifugio Whymper alla non trascurabile quota di 5000 mt. Fortunatamente questo peccatuccio di gola non è riuscito in alcun modo ad intaccare le sue notevoli risorse che le hanno permesso di giungere a la cumbre, vale a dire in vetta, assieme a noi tutti. Lungi però da me l'insinuazione che le nozioni riportate sui sacri testi di alimentazione in montagna e medicina dello sport, (che prescrivono alimenti leggeri, salubri e facilmente assimilabili) vadano in qualche modo riviste e/o aggiornate alla luce di queste esperienze. Giammai, sarebbe presuntuoso arrogante e superficiale. Vorrei unicamente sottolineare come spesso sia solo grazie a quello che ci piace o gratifica il palato che si riescono ad ottenere risultati che non si avrebbero neppure con uno zaino pieno di barrette Enervit® trangugiate assieme a una botte di Gatorade®.
Se al Cotopaxi sembrava di doversi trascinare dietro un galeone, al Chimborazo pareva di avere nello zaino il peso dell'Invincibile Armada. Solo il desiderio di farla finita nel più breve tempo possibile ci ha sorretto fino in vetta. Salendo, nonostante i Koflach e le moffole, sentivo svanire la sensibilità sulla punta delle dita delle mani e dei piedi. Non ero il solo, ma questo non era di alcuna consolazione. La preoccupazione dei congelamenti mi ha vieppiù spronato, mettendomi le ali ai piedi. Poco prima della vetta si giunge all'antecima che similmente al canto delle Sirene invita il viandante ad una sosta ristoratrice. Essendo riusciti tutti (eccettuato Licio) a resistere alla tentazione di riposarsi anzitempo riuscivamo in altri 30 minuti di faticosa scarpinata, resa più lieve dalla sensazione di avercela fatta, ad arrivare nel luogo sulla terra più distante dal suo centro.
Dopo tanta montagna il richiamo della foresta Amazzonica ci ha portati a Puyo, per un breve trek nella Selva. L'attributo pluviale trova qui la sua piena giustificazione, perché ogni giorno cateratte d'acqua trasformano la terra in un pantano, dove i rivoli si trasformano in torrenti ed i ruscelli in fiumi impetuosi. Al termine di una giornata di cammino in un sentiero così fangoso che ad ogni passo ci staccava gli stivali dai piedi, abbiamo fatto il bagno nell'acqua poco profonda del Taculin (un affluente del Rio Pastaza). Qui la guida Don Francisco Cabrera, abitatore di questi luoghi da oltre trent'anni, ci ha illustrato le virtù delle piante della Selva facendoci poi assaggiare l'acqua zuccherina contenuta all'interno dei verdi bambù che ci apriva con pochi agili colpi del suo affilato machete.
Quella notte siamo stati ospiti nella sua palafitta e, terminata la cena, al fine di allietare la serata (da queste parti più che la televisione è l'energia elettrica a mancare) Don Francisco ha improvvisato un concerto solista per fiato e foglia. Infilandosene una tra le labbra a guisa di scacciapensieri è riuscito ad intonare motivetti con un'abilità degna di miglior uditorio. Dopo aver tentato inutilmente di imitarlo ci siamo distesi sotto le coperte o nel sacco a pelo per tenere a distanza il fresco (e gli insetti) notturni. Poco dopo si è scatenato un violento temporale. Così è l'Amazzonia.
La mattina seguente abbiamo ritardato la partenza nell'attesa di un cavallo per il trasporto di una turista austriaca. L'infelice si era fratturata un malleolo piombando al suolo avvinghiata ad una liana su cui si era lanciata giocando ad imitare Tarzan. Siamo così partiti sotto un sole a perpendicolo che lungo il sentiero non ci ha certo risparmiato le sue ruvide carezze. La disidratazione e i baci degli insetti facevano a gara nel darci un degno benvenuto, sino a quando gli dei compassionevoli hanno dispensato un po' di refrigerio sotto forma di un mini diluvio universale. Un muro d'acqua dalla consistenza quasi solida ha trasformato in pochi istanti un tranquillo guado in un'esperienza di sopravvivenza, di cui avremmo volentieri fatto a meno. Solo la prontezza delle guide ha evitato, facendoci formare una catena umana, che i più leggeri fossero trascinati via dalla corrente impetuosa verso una sicura indigestione d'acqua.
L'ultima sera a Puyo, al ritorno dal trek, ci siamo concessi un bel gelato in barba alle buone norme igieniche per poi dividerci tra l'hotel e, per i più irrequieti, l'unica discoteca del paese in compagnia della fauna giovanile locale (poche chicas in verità, ma quelle poche tutte rigorosamente accompagnate e guardate a vista).
Ritornati a Quito, ci siamo infine divisi, chi scegliendo una puntata al mare e chi un'altra sfida in montagna, come gli indomiti Rubbiani Francesco in cordata con Colombo Alberto. Come abbiamo appreso successivamente dalla loro viva voce, la valorosa coppia di alpinisti rimasti a lottare con l'Alpe o per meglio dire con Vulcano, è stata da quest'ultimo, ma più verosimilmente dai capricci di Eolo, respinta a mezza via sul Cayambe. I due indomiti, anziché attendere in loco miglior sorte, decidevano di riparare sull'Iliniza Sur, meno esposto ai capricci atmosferici Amazzonici anche se tecnicamente più impegnativo. La Sorte, ancora una volta benigna nei confronti di una tale tenacia ha infine loro arriso.
Alcuni suggerimenti dell'Agenzia hanno invece indirizzato la rimanente parte del gruppo sulla Costa, fino al Parco Nazionale di Machalilla. Sfortunatamente durante la stagione invernale tutta l'estensione del parco si presenta semidesertica e abbandonata. Durante la stagione secca quest'area costiera è così grigia e desolata da risultare più adatta al solitario misantropo che al visitatore in cerca di contatti umani, soprattutto perché dentro e fuori dal parco (ma sarebbe meglio definirla area protetta) non esistono attrattive di alcun genere.
Dopo lungo peregrinare abbiamo trovato alloggio in una località isolata, in due bungalow in riva all'oceano sotto un cielo plumbeo che non metteva punto allegria. Quella sera, per finire una cena scandita da attese interminabili tra una portata e l'altra ci è stato offerto dalla casa a mo' di consolazione un aperitivo. Dopodiché, in mancanza di alternative, non ci è rimasto che abbandonarsi tra le braccia di Morfeo. Mentre il resto del gruppo sceglieva la quiete e il romitaggio, Miorandi Mauro ed io in un attimo di lucidità decidevamo di trasferirci l'indomani a Bahía de Caráquez alla ricerca di sole e di più varia compagnia.
Sebbene il viaggio vero e proprio si sia concluso solamente due giorni più tardi con il rientro in Italia, mi piace pensare che sia terminato quel pomeriggio a Bahía quando Mauro ed io ci siamo recati alla spiaggia di Canoa per un tuffo nel Pacifico, viaggiando seduti sul tetto di un bus pieno all'inverosimile. Accarezzati dal vento sotto un sole bruciante, avanzavamo lungo una strada polverosa che poi finisce per correre sulla battigia di una spiaggia grigia e lunghissima, pressoché deserta, che si confonde all'orizzonte nelle nebbie dell'oceano.
Agosto 1993