“Ciò che non hai colto da un istante,
non c’è eternità che te lo restituisca”
Friedrich Schiller – Resignation – 1784
Trascorso un mese, la salita al K2 appare già remota nel tempo e nello spazio, come fosse stata fatta da un altro, da un “me” vissuto in un’epoca passata che esiste solo attraverso i ricordi. E’ arrivato il momento per raccontarla: dissolta l’euforia dei primi giorni, gli eventi affiorano con nettezza e distacco, si ricompongono e cristallizzano. Mi si offre l’ultima possibilità per catturarli e fissarli nella scrittura prima che si dissolvano nell’oblio, tra le nebbie del possibile. Lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi, è cambiato, relegando nel mito le salite dei pionieri e nell’antiquato lo stile Alpi Occidentali. Negli ultimi anni le vie normali sulle montagne più note dell’Himalaya, e ora anche del Karakorum, sono state invase dalle spedizioni commerciali. Il business per sua natura si confronta più col portafoglio e l’orologio che con le novità. Il K2 continuerà a dare filo da torcere anche alle prossime generazioni di alpinisti solo recuperando lo spirito esplorativo a discapito di quello emulativo. Non è uno stile accessibile a tutti ma rappresenta una possibile via d’uscita dalla trappola della serialità.
Come ben sanno tutti i viaggiatori, il 50% dell’avventura si consuma prima della partenza, con la fantasia, la documentazione, la preparazione e l’organizzazione. La salita di una montagna non fa eccezione, perché è un viaggio come un altro, solo che alcune parti stanno in verticale. Per qualsiasi appassionato di montagna come me la salita del K2 rappresenta un sogno, la quintessenza delle scalate in alta quota. La scelta della ricorrenza del sessantesimo anniversario l’avevo già fatta due anni fa, puntando sulla convinzione che numerose spedizioni avrebbero colto l’occasione per celebrare il “diamond jubilee” ovvero le nozze di diamante con la montagna. Durante i miei due precedenti tentativi, una delle ragioni d’insuccesso era stata per l’appunto la scarsa presenza di alpinisti. Un altro pilastro su cui fondare una salita coronata da successo è la preparazione fisica. A differenza che in passato, complice una pessima stagione scialpinistica, quest'anno il mio allenamento si è concentrato più su lunghe camminate in salita che sulla corsa o lo scialpinismo. Correre per parecchie ore al giorno per aumentare la resistenza è diventato faticoso, per motivi essenzialmente di età. Più utili si sono invece rivelate le scarpinate in salita a un’andatura sostenuta. Questo esercizio, solo in apparenza masochistico, prende il nome di nordic walking (in italiano camminata nordica o camminata coi bastoni) e si presta bene alla preparazione sui colli di Bologna, intorno casa. Non ho abbandonato del tutto né la corsa in salita né lo sci, ma li ho relegati nel fine settimana e non sempre. Un’altra variante, più ludica, è stata inserire - l’anno prima della partenza - due lunghi trek in quota di un mese ciascuno nelle alte valli del Nepal: ho scoperto che sono utilissimi per rimettersi in forma, facilitando l’acclimatazione oltre a essere istruttivi e divertenti di per sé. Ho percorso ampi tratti della Great Himalaya Trail e fatto il giro dell’Annapurna, con una puntata all’Himlung e in Mustang. Infine, la settimana prima del volo per Islamabad, mi sono fermato per qualche giorno al rifugio Guide del Cervino, ai 3480 m di Plateau Rosa, facendo scialpinismo tra i Breithorn e il Castore, mentre gustavo il filetto alla Felix e i vini dei gestori Erik, Lolli e Max.
La parte organizzativa è stata più tormentata, con la difficoltà di trovare tra le mie conoscenze dei compagni disposti a venire sul K2. Purtroppo il mio socio abituale di spedizione, Adriano dal Cin, non poteva ottenere le ferie per i due mesi necessari. Una richiesta che ho ricevuto da Torino si è rivelata una bufala e così mi sono rivolto a Tamara Lunger, l’unica italiana che conosco con l’esperienza e le capacità per affrontare una salita in autonomia e senza ossigeno al K2. Tam ci ha pensato per un po’ di mesi, ha chiesto il parere dei suoi mentori, si è convinta e ha coinvolto Nikolaus Gruber. Un numero dispari di alpinisti in una spedizione del genere non va bene e così, per formare due cordate indipendenti, mi sono rivolto a un amico dello Shimshal, Amin Ullah Baig, che avevo conosciuto durante la mia spedizione al K2 del 2010 e che nel 2013 ha partecipato alla prima invernale al Broad Peak contribuendo ad aiutare a scendere i due primi salitori, i polacchi Bielecki e Małek. Formata così la nostra spedizione da quattro, non restava che preparare e spedire il cargo coi bagagli e ottenere il visto per il Pakistan. Documento che, mai come quest’anno, ho faticato ad avere. Nonostante ne avessi fatto richiesta con un mese d’anticipo, l’ambasciata di Roma ritardava il rilascio. E’ stato solo grazie al contatto di Simone Moro che il viceconsole di Milano, persona peraltro affabile e gentilissima, mi ha concesso il sospirato visto… due giorni prima di partire! La mia ansia era alle stelle, come si può facilmente immaginare. Tutto dipendeva da quel rettangolino verdastro appiccicato sul passaporto. Anni di preparativi, pianificazione, spese: tutto era subordinato alla presenza di un adesivo con una firma in calce. In quei giorni sono invecchiato di anni e devo ringraziare Tamara per l’interessamento. La partenza è stata una liberazione: sentivo di avere già superato scogli importanti, ma non immaginavo affatto che altri ne sarebbero sopraggiunti!
In cuor mio avevo già messo una pietra sopra sul fatto di riuscire a volare da Islamabad a Skardu, risparmiando 24 ore di sudore e scossoni lungo la Karakorum Highway: nei miei otto tentativi precedenti, mi ero imbarcato solo un paio di volte, a causa del maltempo. Mai però mi sarei immaginato che avremmo avuto problemi a proseguire lungo la pista che da Skardu porta ad Askole, punto di partenza del trek di avvicinamento lungo il ghiacciaio del Baltoro. Dopo due giorni d’incomprensibile attesa, trascorsi tra un polveroso negozietto e l’altro per gli ultimi tardivi acquisti, l’agenzia ATP ci ha finalmente dato il via libera. Ma i ritardi si chiamano tra loro, moltiplicandosi in un perverso intreccio, e solo dopo pranzo abbiamo lasciato l’albergo col nostro ufficiale al seguito, diretti ad Askole. Sembrava che Skardu non volesse farci allontanare: prima ci ha bloccato una foratura subito fuori città poi una frana nel punto più stretto delle gole del Braldo, a notte fatta. Le ignare pietre che ingombravano la stretta carreggiata hanno fatto le spese della nostra frustrazione, finendo a palate nel fiume sottostante, mentre sopra le nostre teste incombeva la minaccia di nuovi crolli. Pochi chilometri più avanti, un ponte malandato con l’assito sfondato sbarrava definitivamente la strada. Non c’era più niente da fare, nonostante un ultimo disperato tentativo di svellere i parapetti in legno del ponte per ricostruire la parte mancante del fondo, sotto lo sguardo esterrefatto del nostro capitano, inzuppati da una pioggerella insistente e gelida che penetrava sin nelle ossa. Per caso, sull’altro lato del torrente, una jeep vuota era in attesa. Effettuato il trasbordo, siamo infine giunti ad Askole verso mezzanotte. Più ci avvicinavamo, più il campo base del K2 pareva allontanarsi, come un miraggio. Ma le sorprese non erano ancora finite. Il giorno seguente, dopo non pochi tira e molla con il capitano Ahmed, un tipo simpatico ma piuttosto ligio nell’interpretazione dei regolamenti, la carovana dei portatori si è finalmente messa in marcia all’una del pomeriggio. Ero appena arrivato a metà della prima tappa del trek, in località Korophong, là dove il Biafo si getta nel Braldo, quando un portatore trafelato mi ha raggiunto, consegnandomi un biglietto. L’esercito ci intimava di tornare immediatamente a Skardu, perché non potevamo proseguire se non insieme a tutti coloro che si trovavano in lista con noi sul permesso di salita per il K2. Brividi freddi mi sono scesi lungo la schiena: la difficoltà era che Cleonice e gli altri membri con cui avevamo condiviso il permesso sarebbero giunti in Pakistan solo la settimana seguente. Per noi quattro ciò avrebbe significato la rinuncia a una salita senza ossigeno, per la quale occorre trascorrere almeno un mese al campo base. Questo periodo può essere ridotto se si giunge già acclimatati, magari perché si è partecipato a una precedente spedizione in alta quota, come avevano fatto i nostri compagni di permesso. La scelta di tentare una salita il più possibile “pulita”, senza uso di bombole, era per tutti noi irrinunciabile: non abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi di scendere a compromessi. Ottemperare alla richiesta, rientrando a Skardu per una settimana sarebbe equivalso a rinunciare all'impresa ancor prima di arrivare al campo base. Quel giorno ricordo di aver mestamente ripercorso i miei passi sino ad Askole, accompagnato da cupi pensieri. Dovevamo fare l’impossibile per cercare di risolvere il problema dal luogo in ci trovavamo, e non tornare a Skardu, perché se avessimo ceduto all’ultimatum del comando chissà quanto altro tempo avremmo perduto. Sono occorsi due giorni, nonché centinaia di dollari spesi telefonando coi nostri Thuraya (tra me e Tamara) oltre all’interessamento di Agostino da Polenza e Simone Moro per arrivare infine a comprendere come l’unica soluzione praticabile fosse quella di pagare le spese per assoldare un secondo ufficiale, dividendo il gruppo in due. Il nuovo rappresentante militare avrebbe accompagnato al c.b. a tempo debito il resto del gruppo internazionale di cui facevamo parte, mentre a noi sarebbe stato concesso di proseguire come gruppo a sé stante, mantenendo il capitano Ahmed come liaison officier. Sull’aspetto economico ha prevalso il desiderio di giungere alla nostra meta e di salirla prima possibile. Così, obtorto collo, ci siamo accollati le maggiori spese e abbiamo avuto luce verde per proseguire. Per riguadagnare, almeno in parte, i giorni perduti si è compresso il trek di avvicinamento da sette a cinque giorni, rinunciando della sosta a Paju e allungando le singole tappe. Il campo base del K2 è stato raggiunto il 25 giugno, con due giorni di ritardo sul programma iniziale ma pur sempre in tempo per portare avanti la salita lungo lo Sperone degli Abruzzi nei modi e nei tempi che ci eravamo prefissati.
Nel frattempo erano già arrivate al campo base la spedizione italo-pakistana di Agostino da Polenza “K2 sessanta anni dopo”, quella dei polacchi di Janusz Gołąb con il “vecchio” amico Simone La Terra e quella dei due greci Panos e Alex. Nessun altro. Ci siamo subito rallegrati del numero: pochi, ma sufficienti per coordinare le forze in vista della salita. Inoltre, anche la mia scarsa memoria bastava a ricordare il nome di tutti i presenti, cuochi e kitchen boy compresi. I primi dieci giorni al campo base sono stati quelli più spensierati: la vetta incombeva su di noi ma appariva ancora lontana, inaccessibile, avvolta nel mito. Passavamo il nostro tempo a pianificare, a salire al campo due (raggiunto già il due luglio) e a dormire in quota per perfezionare l’acclimatazione. L’atmosfera era cordiale, complice, e non mancavano gli inviti a pranzo e a cena reciproci, anche tra campi base diversi. Non è solo in salita che si fa acclimatazione: qualche discesa di tanto in tanto permette di respirare aria meno secca e più ossigenata rispetto a quella che c'è al campo base. All’Everest è più facile farlo: basta scendere in giornata da Gorak Shep a Tengboche per ritrovarsi a respirare l'aria profumata dei boschi, mentre sul Baltoro le distanze sono maggiori, essendo una distesa di pietre lunga 63 chilometri che ricoprono l'enorme ghiacciaio. Dal c.b. del K2 a quello del Broad Peak ci sono solo tre km ma si scende di appena 200 m. Cionondimeno, ne approfittavamo spesso per farci una passeggiata prima di pranzo. Gli alpinisti incontrati al c.b. del Broad Peak sono sempre stati cortesi con noi: dagli spagnoli, ai messicani, al gruppone internazionale guidato dagli sherpa delle 7 Summit Trek. Non ci hanno mai lasciato tornare indietro senza averci prima offerto qualcosa, da una preziosissima coca cola a un pranzo. Ad esser sincero devo aggiungere che la presenza di Tamara incoraggiava la cortesia dei nostri anfitrioni. Donne ancora non ne erano arrivate al K2 e l’unicità della sua presenza faceva effetto su tutti. La tenda mensa dell’ATP ospitava inizialmente solo noi tre italiani (un bolognese e due sudtirolesi, strano mélange, unito dalla comune passione per le montagne e i salumi) e non difettavano quiete e spazio. Poi, tra il 4 e il 6 luglio sono giunte una dopo l’altra tutte le spedizioni che ancora mancavano all’appello: i cecoslovacchi, la spedizione commerciale della 7 Summit Trek con i nordamericani e le 3 sherpani più la spedizione degli sherpa con al seguito la cinese Lou Jing e la neozelandese Chris Burke con tre sherpa, Cleo Weidlich coi suoi quattro sherpa, più tutto il resto del nostro gruppo internazionale ATP (un turco, un macedone, un finlandese, uno spagnolo, un iraniano, un macedone, uno di Singapore, un tibetano) senza contare gli sherpa al seguito. Il loro ufficiale di collegamento era proprio quello che avevamo ingaggiato per poter proseguire. Tanti nepalesi insieme sul K2 non si ne erano mai visti: alla base della montagna si è creato un "villaggio" di una settantina di persone dove s’incontravano le più svariate incarnazioni dell'alpinismo. Mi hanno molto impressionato gli altari per le offerte e i rituali della puja – di tradizione buddista e nepalese – che hanno idealmente unito il campo sotto una rete di protezione cosmica (per chi ci crede) fatta da coloratissime bandiere di preghiera, del tutto inedite sui monti “islamici” del Pakistan. Gli sherpa sono piuttosto superstiziosi, è risaputo, e nessuno di loro ha messo piede sulla montagna prima della celebrazione della cerimonia da parte del lama, circostanza che ha richiesto un altro paio di giorni. Così, si può affermare che gli sherpa e i loro clienti abbiano compiuto la salita al K2 in meno di venti giorni! Tutti mangiando carne di un grosso zoo (un incrocio tra yak e mucca) macellato per l’occasione: gli sherpa sono tutto fuorché vegetariani! Tutti impiegando bombole di O2. Ma l’uso di ossigeno non è certo un ossimoro per sherpa e clienti, un cavillo da sofisti: l’idea del possibile doping non li sfiora neppure: lo si usa e basta, così come noi tutti indossiamo i ramponi o il piumino d’oca. Ciò che conta è arrivare in cima, sani e salvi, senza congelamenti e nel più breve tempo possibile. Questo modo pragmatico di affrontare le cose può apparire sbrigativo, molto amerikano. Mi fa venire in mente, chissà perché, Indiana Jones che ne "I Predatori dell'Arca Perduta", munito di revolver, spara all’abile spadaccino arabo che gli si para innanzi minaccioso senza pensarci su due volte. E’ un po’ da barbari dell’alpinismo, se volete, ma indubbiamente risulta efficace, pratico e sicuro. D’altronde agli sponsor e al grande pubblico interessa solo sapere se si è saliti in vetta o meno, mica “come” lo si è fatto. Tant’è che al c.b. del K2, quando ho potuto incontrare la statunitense Weidlich (coetanea, nonché collega ingegnere nucleare) ho appreso la sua versione di come sono andate veramente le cose la scorsa primavera all’Everest e al Lhotse. Mi ha spiegato nei dettagli come si sia giunti alla prima salita all’Everest assistita dall’elicottero (acronimo spiritoso: A.A.A.: Aviation Assisted Ascent). Non vi stupirà saperlo, ma la miliardaria cinese Wang Jing, unica nel 2014 a salire in vetta all’Everest dal versante nepalese partendo dal C2 dove si era fatta portare in elicottero assieme ai suoi otto sherpa, ha investito centinaia di migliaia di dollari nella salita, tra una quisquilia e l’altra… Forse parlare di nuovi barbari che vanno a braccetto coi nuovi ricchi al tramonto di un'epoca non è poi un’ipotesi tanto azzardata!
Il maltempo ha flagellato il K2 per tutta la seconda settimana di luglio, ma intanto, grazie al lavoro del team pakistano, la via era aperta sino al campo due. Solo dopo la seconda metà del mese la spedizione guidata dagli sherpa della 7 Summit Trek è riuscita a superare la cosiddetta “piramide nera”, che porta dal campo due al campo tre. La salita si sviluppa per un migliaio di metri su terreno misto e roccette instabili, a tratti verticali. La parte rocciosa termina sotto un ghiacciaio pensile, verso i 7200 m. Questa è, a mio avviso, la parte più faticosa e pericolosa dell'intero Sperone: i singoli passaggi sono spesso attrezzati riciclando vecchie corde trovate sul posto, rese fragili dalle intemperie e giuntate in modo precario. Questo si deve principalmente al fatto che costa tempo e molta fatica portare tanto in alto i pesanti rotoli delle corde nuove. Le tende del campo tre si montano sul lieve pendio nevoso che sovrasta la piramide nera, luogo parzialmente riparato dalla parete della spalla. Anche se c'è ampio spazio l'area non è del tutto sicura per via delle valanghe che si possono staccare dai ripidi pendii sovrastanti, specialmente se è nevicato di recente, come purtroppo è successo l'anno scorso. Anche per questo motivo ho preferito non dormire al campo tre se non durante l'attacco finale alla vetta, che si è presentato a partire dal 23 luglio. Secondo le migliori previsioni i giorni dal 23 al 27 sarebbero stati tutti utili per la salita. Il 25 appariva come il giorno più adatto per tentare la vetta, ma poiché il gruppo più consistente era quello della spedizione commerciale guidata da Dowa Sherpa e dato che a loro sarebbe toccato sistemare la corda sul traverso a 8350 m, la scelta sul giorno di vetta l'hanno fatta loro per il 26. Nella riunione tenutasi al campo base tra i rappresentanti di tutte le spedizioni si era concordato, per motivi di sicurezza e tenendo conto del bel tempo, di dividere il “summit push” in due giornate consecutive, il 26 e il 27, onde evitare ingorghi sul collo di bottiglia e sul traverso. Non tutti hanno iniziato la salita il 23, perché i polacchi hanno preferito attendere e Clio con i suoi sherpa ha scelto di tentare per conto proprio la via Cesen. Dal canto mio stavo bene per cui il 23, assieme ai miei tre compagni (più altre venti persone), ho deciso di salire direttamente dal campo base al campo due, impiegando poco più di nove ore. Il mattino seguente un cielo terso e soleggiato invogliava a indugiare per scaldarsi, ma la piramide nera è lunga e faticosa e in montagna più che altrove è bene rifarsi al detto "chi ha tempo non aspetti tempo". Sette ore più tardi e seicento metri verticali sopra, in una giornata ancora perfetta, ho aiutato il mio compagno a montare la tenda trasportata dal campo due. Per poter sciogliere la neve senza essere costretti ogni volta a uscire dalla tenda per raccoglierla, prendendo freddo inutilmente, avevamo riempito un sacchetto di plastica. Nonostante tutte le precauzioni, un sapore strano resta sempre appiccicato alla neve sciolta: è un retrogusto disgustoso che persino il thè o l'aranciata non riescono a cancellare del tutto. In passato avevo constatato di poter digerire qualsiasi cosa, almeno sino a 7800 m, ma le barrette energetiche sono dei mappazzoni poco invitanti e difficili da deglutire, per cui ho attaccato un salamino di cervo che mi ero tenuto di riserva per l'occasione. Le buste dei pasti pronti liofilizzati da reidratare sono pratiche, ma il loro sapore lascia spesso a desiderare: il mio compagno, dopo un primo assaggio, non ne ha più voluto sapere e anch'io ho rinunciato poco dopo, lasciandone oltre metà. Avendo ben mangiato e riposato, il giorno dopo mi sentivo abbastanza in forma, tanto da continuare l'ascensione. Prima però occorreva smontare la tenda, perché era l'unica di cui disponevamo e la dovevamo usare anche per l'ultimo campo, il campo quattro, che si trova nella parte pianeggiante della spalla a quasi 8000 m. Ciò che in altri ottomila "minori" è una quota già paragonabile alla cima, sul K2 è solo un luogo dove sistemare l'ultimo campo e trascorrervi la notte prima di cimentarsi con la parte più impegnativa della salita. Il tratto che porta alla spalla si snoda su pendii moderati che salgono a grandi ondate: qui non c'erano corde fisse tranne che negli ultimi 50 m, là dove il ripido pendio ghiacciato presenta un crepaccio terminale che non concede distrazioni. Sono riuscito a dare un fugace sguardo alla vetta dal campo quattro verso le tre del pomeriggio del 25 luglio, poco prima che le nuvole pomeridiane ne precludessero la vista, ammirandone l'imponente piramide sommitale: una montagna nella montagna!
La cima, dal campo tre, risulta infatti nascosta dall'enorme mole della spalla. Quella sera ho riposato bene, fatto che ha sorpreso me per primo, dato che nei due giorni precedenti avevo sofferto di un lieve mal di testa che mi aveva preoccupato non poco. Per prudenza e per non perder tempo ho deciso di partire molto presto, alle dieci di sera, mentre i miei compagni di spedizione sceglievano di lasciare il campo a mezzanotte. La mia idea era di partire prima per disporre di un più ampio margine. D’altra parte, partendo prima, si passano lunghe ore esposti al freddo notturno, che a quote superiori agli 8000 m non è da prendersi alla leggera. Il fatto che non facesse tanto freddo in assoluto, qualcosa come diciotto gradi sotto zero in assenza di vento, mi ha però convinto a partire prima. Purtroppo ero in errore. Ora dopo ora, mano a mano che salivo in solitudine, percorrendo il tratto che gradualmente s’impenna sino al collo di bottiglia nel buio rischiarato dalla luce della frontale, sentivo l’estremità dei miei piedi sempre più fredda. “Se continua così – ho pensato – sarò costretto ad abbandonare prima dell’alba. Se perdo la sensibilità delle dita dei piedi, mi potrebbe accadere di tutto. Una vetta non vale un’amputazione. Non deve accadere!!! Devo fare qualcosa ora, prima che sia troppo tardi, sinché ho ancora sensibilità”. Mi sono fermato, ho tolto lo zainetto e mi ci sono seduto sopra, bevendo abbondanti sorsi di bevanda calda. Poi ho sollevato la punta degli scarponi, in modo che solo i talloni appoggiassero sul suolo gelato. Contemporaneamente ho iniziato a muovere con forza le dita dei piedi. Ho continuato così, per mezz’ora circa, finché non sono riuscito a riacquistare sufficiente sensibilità da permettermi di proseguire. Nel corso di quell’interminabile notte ho ripetuto l’operazione altre due volte, sempre sul punto di rinunciare alla salita ma sempre mantenendo il controllo della situazione. Le mani, invece, stavano benone. L’alba mi ha colto aggrappato al “collo di bottiglia”. Subito ho cercato un terrazzino roccioso, uno strapuntino che mi permettesse di stare ritto in piedi, esponendo la punta degli scarponi ai primi raggi del sole per sottrarla alla morsa del gelo. Il collo di bottiglia è un passaggio obbligato tra le rocce, stretto e ripido oltre 50 gradi. Starci in piedi non è certo il massimo del comfort, per cui, non appena mi sono sentito meglio, ho percorso gli ultimi metri che mi separavano da una nicchia esposta a sudest nella volta del grande seracco. Nel frattempo mi avevano raggiunto quasi tutti quelli che erano partiti due ore dopo di me. Ci siamo ritrovati tutti in fila indiana, pressoché fermi all’inizio del traverso, attendendo che gli sherpa finissero di attrezzarlo. Ho approfittato della sosta forzata, durata quasi un’ora, per ricavare una piazzola nella neve morbida sotto al muro di ghiaccio strapiombante. Qui mi sono tolto gli scarponi per massaggiarmi i piedi intorpiditi, esponendoli al sole. In pochi minuti i piedi si sono scaldati e non mi hanno dato più problemi per il resto della salita. Intorno a me, la vista era eccezionale. La coda di una trentina di alpinisti si era intanto sgranata, procedendo tuttavia a passo di lumaca lungo il traverso. E’ questo uno stretto passaggio obliquo sull’interfaccia tra il grande seracco e le ripide e ghiacciate rocce sottostanti. Per fortuna quest’anno si era formato un accumulo di neve morbida lungo il traverso, facilitandone il percorso tranne che in un breve tratto dove ho trovato ghiaccio vivo. Il grande seracco sopra alla spalla del K2 è visibile a decine di km di distanza, strapiomba sul traverso e in alcuni punti è alto più di cinquanta metri. E' costituito da grandi blocchi translucidi, precariamente cementati tra loro e instabili. Non raggiunge i duecento metri di sviluppo, ma abbiamo impiegato quattro ore per superarlo.
L’avanzata era esasperante perché i primi procedevano a rilento, mentre assicuravano la corda. “Non è esattamente il luogo più sicuro per fermarsi - mi dicevo - ma se non si vogliono correre rischi è meglio non tentare del tutto la salita”. Col passare delle ore la temperatura si è alzata. Le valli in basso si sono ricoperte di serici batuffoli di nuvole che si allargavano, innalzandosi sempre più. Verso mezzogiorno, la maggior parte degli alpinisti, me compreso, aveva raggiunto un pianoro situato duecento metri sotto al cucuzzolo sommitale. Il sole accecante incastonato nel blu oltremare del cielo conferiva al panorama sfumature azzurrine. La vetta sembrava essere a portata di mano, ma a quelle quote si avanza lentamente e le proporzioni ingannano. Mancavano in realtà più di tre ore alla cima. Dopo una breve sosta per rifocillarci, abbiamo ripreso l’interminabile salita. Ci siamo subito sgranati, perché chi aveva le bombole era leggermente più veloce. I soffici ciuffi di nuvole si erano intanto raccolti in un mare compatto, che precludeva la vista più in basso, mentre tentacoli di nebbia si spingevano sin sulla vetta, avvolgendola a tratti. Proseguivo seguendo la traccia, con Amin appena una cinquantina di metri davanti a me, sinché tutto si è chiuso. Mi sono ritrovato a salire per un breve tratto totalmente immerso nella foschia, sinché si è aperta e poco dopo mi sono ritrovato in cima, affacciato su davanzali di nuvole che coprivano le cime intorno. Accanto a me c'erano parecchi altri alpinisti, molti con le maschere per l'ossigeno e tutti avvolti in tute multicolori. Solo il cielo blu scuro tendente al nero dello zenit, era sopra di me.
Devo il successo a una combinazione di fortuna e di bel tempo per cinque giorni di seguito, evento abbastanza raro in Baltoro, il tutto unito a una buona dose di coraggio, pazienza e resistenza, alla volontà di non arrendermi al freddo; qualità che ho perfezionato nel corso del tempo a prezzo di numerosi insuccessi. Non ho avuto modo di apprezzare tutto questo in vetta, dato il poco tempo che vi ho trascorso per la preoccupazione di tornare al campo quattro prima di notte. Non ero sceso che di duecento metri dalla cima che incominciava a nevicare. Il paesaggio ha cambiato aspetto, assumendo tinte invernali, ma per mia fortuna non si trattava di tormenta, quanto di una “innocua” condensa pomeridiana. Ho ripercorso i miei passi in quattro ore appena, con le ali ai piedi, raggiungendo la mia tenda al campo quattro proprio mentre il sole tramontava. Mi ci sono buttato dentro e mi sono addormentato di botto, senza neppure togliermi il tutone integrale prima d’infilarmi nel sacco a pelo. Mi sono svegliato dodici ore dopo, mentre la tenda si scaldava al sole di una giornata perfetta. Con Amin, abbiamo preferito smontare la tenda e cercare di scendere subito al base. Carico come un mulo, mi ci sono volute dodici ore e sono arrivato col buio. Tutto è andato liscio ma non vorrei dare l’impressione di sottovalutare le condizioni ambientali, dato che lungo la via di discesa, poco sopra il C1, sono stato sfiorato a poche decine di metri da alcuni proiettili rocciosi grandi come un pallone da football, all’apparenza fatti precipitare da qualcuno che scendeva sopra di me. Ecco perché la rapidità in montagna è un fattore di sicurezza, anche se nessun velocista potrà mai eliminare del tutto il rischio di prendersi un sasso in testa grande abbastanza da sfondare qualsiasi casco. La sera stessa del ritorno al campo base, apparentemente al sicuro dentro la mia tenda a 5000 m, ho avuto una crisi respiratoria, senza dubbio dovuta alla stanchezza per essermi portato dietro uno zaino pesante unitamente alle decine di ore di sforzi continuativi in discesa. Mi sono automedicato con una pillola di Adalat® e una di Fortecortin®. In due ore tutto è rientrato, ma ho conosciuto la paura, proprio quando pensavo di essere già salvo al campo base. Non c’è sicurezza né garanzia alcuna sul K2, almeno questo l’ho capito. Tuttavia, nei giorni successivi alla salita, lentamente, si è fatta strada in me la consapevolezza di avercela fatta, di essere sopravvissuto all’ordalia, alla roulette russa della salita. E allora, gradualmente, è arrivata una sobria felicità, temperata dal pensiero di chi non ce l’aveva fatta, anche se mai come quest’anno il K2 è stato benevolo coi suoi pretendenti.
Al primo posto tra i motivi di contentezza va senza dubbio quello di essere andato e tornato dalla vetta integro. Poi quello di aver pensato, organizzato e realizzato in proprio la mia terza mini-spedizione al K2, senza il sostegno di sponsor o aiuti economici o materiali al di fuori di quelli del mio portafoglio, con la sola e gradita eccezione del patrocinio oneroso del CAI della mia città. Il fallito tentativo del 2010 mi era costato la rinuncia a un’esperienza unica: un anno e mezzo rinchiuso nel simulatore marziano di Città delle Stelle a Mosca, ma almeno questa volta tutti e tre i membri della spedizione di cui sono stato leader hanno toccato la cima. Infine la soddisfazione di essere uno dei pochissimi ultracinquantenni ad aver salito il K2 senza ossigeno, unico italiano in questa fascia d’età. Ben oltre me Diemberger, che è arrivato in vetta a 54 anni, sempre senza O2, in circostanze difficili e dall’esito drammatico come racconta nel suo “K2 Il nodo infinito”. Il record di età spetta al mitico Carlos Soria che, salendo a 65 anni sia pure con le bombole, stacca tutti. Tuttavia “Il mondo è cambiato. Lo sento nell'acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell'aria. Molto di ciò che era si è perduto, perché ora non vive nessuno che lo ricordi” (J.J.R. Tolkien) e ancora, “Io adesso non scalo più le alte vette, sono contento anche solo di andare in giro per i colli di Bologna”. Quest’ultima citazione avrei potuto scriverla io, ma invece sono parole di Kurt Diemberger, grande vecchio dell’alpinismo mondiale, 82 anni, nel suo ultimo e commovente film in dvd “Verso dove”, per la regia di Luca Bich. Per questo, oltre che per motivi anagrafici, economici e d'interesse, credo che un ciclo della mia vita sia compiuto: quello delle scalate in altissima quota. Nella vita considero il cambiamento un valore in sé. Oltre gli ottomila ho ancora un mondo da esplorare. Penso ne sia valsa la pena, più che per le salite in sé stesse, per quello che mi hanno insegnato su di me e sulle persone che ho incrociato sul mio cammino.
Passo ora ai ringraziamenti, doverosi per un’impresa che non si può certo definire individuale, ma collettiva, pur se la fatica della salita ricade interamente sulle gambe e nei polmoni di chi la fa. Un primo grazie va quindi a coloro che hanno attrezzato la via di salita: al team pakistano che ha sistemato le corde tra l'abc e il campo due, agli sherpa che hanno attrezzato da C2 a C3 oltre al traverso. Nessuno era solo sulla montagna - tranne i due polacchi che sono saliti in vetta il 31 luglio - ed è tale circostanza, unita a una situazione meteo eccezionale, che ha reso possibile tanti successi in un sol giorno, stabilendo un record (32 in vetta solo il 26 luglio, fonte: Explorersweb) destinato a restare imbattuto per un po' di anni. Poi sono riconoscente ai miei tre compagni di spedizione, Amin, Tamara e Nikolaus, per aver reso possibile, tutti insieme, la spedizione. Saluto affettuosamente gli italiani della spedizione “ufficiale” K2 sessant’anni dopo: Agostino da Polenza, Michele Cucchi, Simone Origone, Daniele Nardi con cui abbiamo passato piacevoli momenti a tavola, nonché collettivamente tutti e sette i componenti pakistani. Per ultimo vorrei ringraziare proprio Lui, il K2 in persona, per la più grande lezione che mi ha insegnato: siamo fatti tutti di carne e di sangue, di parti che si congelano per il freddo e la stanchezza oppure spingendosi oltre le proprie possibilità. “No limits” è una favola, un’invenzione del marketing. La vita è fragile, sospesa a un respiro o a un gesto. Troppo spesso ce ne scordiamo, inseguendo il futile e il superfluo. Solo in circostanze estreme ce ne ricordiamo. Allora appare chiaro come i superman o le superwoman esistano solo nelle favole o nei film (il cinema è finzione per antonomasia). Solo quando ho capito che mi stavo giocando la vita, ho compreso quanto mi sia cara e quanto sia importante viverla attimo per attimo, lontano da quei luoghi di morte che si trovano oltre la fatidica soglia di 8000 m. Non siamo fatti per vivere lassù: fa troppo freddo e l’aria è troppo rarefatta. Possiamo farci solo un numero limitato di effimere toccate e fughe, pur non prive di rischi, disagi e sofferenze. E alla fine, se ci pensiamo, quelle zone ostili ci rimandano un’unica lezione: ovvero imparare ad apprezzare le piccole cose della vita, quelle di tutti i giorni. Gli affetti che, trascinati dalla consuetudine, diamo spesso per scontati, dimenticandone il valore. Solo sul punto di perdere qualcosa che riteniamo acquisita ci rammentiamo della sua importanza. Tale è la natura umana. Sono stato graziato da Sua Maestà il K2, come mi ha ricordato ieri il vecchio Kurt, e vorrei poter vivere ogni singolo attimo della vita come fosse un dono: con gratitudine e meraviglia.
Bologna – 26 agosto 2014