Tanzania

Kilimanjaro

Una vetta dal nome Libertà

Testo e foto di Giuseppe Pompili

 

"Fa caldo al lago Natron”, si lamentano i miei compagni di viaggio, mentre in Italia è Epifania e l'inverno procede avanti tutta. L'affermazione riesce a farmi rabbrividire, al pensiero che fra due giorni saremo di ritorno alle nostre "temperate" latitudini, immersi tra le brume e le nebbie, nella consueta routine. Mentre mi rilasso all'ombra di un albero del campeggio "Le cascate", posto allo sbocco di una stretta gola che si apre sul lago, riaffiorano alla memoria le immagini del nostro breve e frenetico viaggio in Tanzania, che in due sole settimane ci ha catapultato dalla vetta del Kilimanjaro a quella dell'Ol Donyo Lengai, passando per i celebri parchi nazionali. Il Natron non è, a rigore, un parco nazionale, ma un'area protetta "game controlled area", situata nella Rift Valley, a circa 600 m sul livello del mare. Il caldo equatoriale non è mitigato dall'altezza, come invece accade sull'altipiano, e si raggiungono facilmente temperature da collasso. Al di fuori di una ridotta fascia di vegetazione che costeggia le rive dei turbinosi torrenti, le cui acque diafane si gettano dall'alto del rift sino al lago in un susseguirsi di salti e cascate, c'è un'arida savana priva di alberi che diventa a tratti deserto pietroso. A differenza degli altri parchi questo non è un luogo turistico. I pastori Maasai allevano qui il loro bestiame, perennemente occupati a spostare le mandrie, sempre a caccia di pascoli freschi. Cercando foraggio per i loro animali si spingono fin sulle pendici dell'Ol Donyo Lengai, il vulcano sacro che, dall'alto dei suoi 2878 metri, domina tutto il paesaggio del Natron meridionale. Gli argillosi versanti inferiori del perfetto cono che ricorda il Monte Fato di J.R.R. Tolkien nel "Signore degli Anelli" sono ricoperti da una folta erba, che vira al giallo durante la stagione secca. E' forse per questo, per la relativa generosità in una terra arida unita al timore delle sue violente eruzioni che i Maasai lo considerano sacro. La salita del vulcano, da me proposta a chi interessato come alternativa ad un'escursione in riva al lago, è stata accolta inizialmente da otto persone, ridottesi a quattro quando Marco, l'infaticabile autista della Parkways, si è rifiutato di accompagnarci dal campeggio fino alla base del vulcano, accampando deboli scuse sulla poca benzina rimasta ma principalmente per risparmiarsi il disturbo di doversi alzare alle quattro di mattina e guidare per una decina di km! Questo ha costretto i quattro impavidi decisi a partire a tutti i costi ad un'alzataccia, dovendo lasciare il campeggio alle tre di notte per fare a piedi la marcia di avvicinamento. Dopo una salita durata circa tre ore, Tiziana ed io abbiamo raggiunto la cima, che nelle tenebre precedenti l'alba appariva nascosta dalle nubi. Tutti gli altri, incluso un gruppo di svizzeri provenienti dal nostro stesso campeggio (molto meglio motorizzati di noi), hanno preferito rinunciare. Solo in vetta è ricomparso un pallido sole e, tra la brume che si andavano diradando, ho creduto di intravedere sulla scarpata che si precipita verso la Rift Valley, sospesa oltre le nuvole tra il cielo e la terra, la silhouette fantastica dei formidabili bastioni di Barad-dûr, l'oscura fortezza di Sauron. Il cratere sommitale del monte è riempito quasi interamente da un lago di fango solidificato, al cui centro si erge un conoide, replica in miniatura del genitore, che pigramente esala vapori sulfurei. E' un luogo solitario e selvaggio, tra il lunare e l'infernale, senz'anima viva. Se è vero che il mal d'Africa si contrae viaggiando in Tanzania, io mi sono ammalato definitivamente in questo luogo.

 

Il primo sintomo lo avevo avvertito a Namanga, alla frontiera tra il Kenya e la Tanzania, quando Simon Mayunga, la nostra guida Chagga, era venuto incontro al gruppo per condurci quello stesso giorno a Marangu, porta d'accesso al Kilimanjaro. Tre tappe, tre rifugi lungo la via di Marangu, segnano altrettanti punti di sosta lungo il sentiero che per una quarantina di chilometri si snoda dall'ingresso del parco nazionale del Kilimanjaro a 1800 m di quota fino al punto più alto del vulcano, il picco Uhuru, "Libertà" in lingua swahili, quattromila metri più in alto. Le statistiche dicono che soltanto una su cinque tra le migliaia di persone che ogni anno tentano la via normale di salita riescono ad ammirare da vicino il trono di ghiaccio di Ngai, il dio della Montagna Bianca. Questi numeri non devono trarre in inganno, perché la salita di per sé è poco più di un'impegnativa scarpinata e le uniche incognite riguardano le condizioni meteo e l'effetto della quota. Gli alpinisti sono solo una piccola minoranza tra le persone che si cimentano e la salita, più che una sfida, è un itinerario volto alla scoperta di un'Africa insolita, candida ed algida nel suo punto più alto tanto quanto verde e ricca di vita lungo i versanti inferiori. Dal Kili Gate al primo rifugio, il Mandara, si attraversa una folta foresta pluviale popolata da scimmie e numerose specie di uccelli. La pista sterrata che in tre ore di marcia conduce al primo rifugio è scavata nel folto della giungla, solcata dalle tracce dei fuoristrada dopo pochi chilometri cede il passo ad uno stretto sentiero che prosegue sotto la volta della foresta. Salendo lungo la pista abbiamo incontrato numerose comitive provenienti dalla direzione opposta che ci facevano, oltre ai saluti, anche gli auguri, auspicando buona fortuna. Sul momento siamo rimasti perplessi di fronte a tanta gentilezza. Avremmo compreso solo in seguito, al ritorno, come oltre alla cortesia fosse presente anche un pizzico d'ironia nei riguardi di chi, accingendosi a salire per la prima volta, ancora non aveva conosciuto la fatica implicita in un tale proposito.  

 

Alla sommità di una radura erbosa in lieve declivio, inondata da un sole accecante, ci ha accolto il Mandara. La prima tappa ha termine presso questo delizioso rifugio, costituito da un insieme di piccole capanne in legno che ricordano le baite alpine, stile inconsueto per l'equatore. L'aspetto bucolico del paesaggio ci ha indotto, non appena depositati gli zaini nei graziosi bungalow, ad abbandonarci in amene conversazioni all'aperto, mentre i cuochi preparavano il pranzo. Chiacchierando piacevolmente al sole, sdraiati su di un morbido prato, non pareva vero di essere impegnati a salire sulla montagna più alta del continente. Il mattino seguente, come al solito, siamo partiti in ordine sparso precedendo i portatori, ciascuno con la propria strategia di marcia per amministrare al meglio le forze in vista del balzo finale, reso più impegnativo dalla quota. Il sentiero è ben marcato e l'andirivieni ininterrotto di chi scende e di chi sale rende difficile perdersi pure per un bambino. Poche centinaia di metri oltre il rifugio la foresta si dirada, l'orizzonte si allarga e contro il liquido cielo blu cobalto si staglia netta l'imponente mole del Mawenzi, la più bassa delle due cime del vulcano, dalle numerose e frastagliate creste nere scalate per la prima volta dai mitici "ragni di Lecco", mentre ancora più lontano il Kilimanjaro con il suo cappuccio di ghiacci che splendono ammiccanti ci attirava irresistibilmente come il leopardo della leggenda, che all'inseguimento di una gazzella giunse in cima e vi trovò la morte, punito dal dio per aver osato entrare nella sua dimora.

 

Dopo cinque ore di marcia lungo un polveroso sentiero che attraversa una solitaria brughiera d'erica si giunge all'Horombo, il secondo rifugio della serie, a 3720 m. Non avendone ancora avuto abbastanza, tre di noi hanno concluso la giornata con un'escursione nei paraggi, sino a raggiungere la sommità di una collina isolata e brulla che domina il canalone alla cui destra orografica si trovano le costruzioni del rifugio, trecento metri più in basso. Le baite in legno dipinto di verde dai tetti a spiovente in lamiera nera adibite a dormitori, (dono dei norvegesi), sembravano un minuscolo villaggio fatato, popolato da silenziosi gnomi neri. Scendendo verso quell'unico aggregato di umanità, sperduto nella solitudine circostante, abbiamo attraversato un boschetto di seneci giganti, alti fino a cinque metri, ai cui piedi crescevano alcune solitarie lobelie. I seneci sono singolari forme vegetali, adattate dall'evoluzione alla sopravvivenza sui rilievi africani. Non sono riuscito a resistere alla tentazione di salirne uno che, come i suoi vicini, presentava un fusto interamente ricoperto da uno spesso strato di foglie secche. Mi sono spesso chiesto quale fosse mai l'età di una forma di vita così singolare. Le apparenze spesso ingannano e questo è tanto più vero in questi luoghi, dove gli anni si confondono con i decenni ed i decenni fluiscono nel tempo sospesi in un'immobile apparenza d'eternità.

 

Sfidando le fredde carezze del vento, non siamo rientrati che dopo il crepuscolo, ricompensati da un romantico tramonto quando il sole si è tuffato dietro le nubi all'orizzonte, lasciando come ultima traccia di sé un colore rosato sui ghiacciai sospesi al bordo del cratere del Kilimanjaro, somigliante sullo sfondo del limpido cielo ad un enorme cono gelato alla fragola. Dopo cena ci siamo addormentati quasi subito di un sonno pesante, ben coperti nei nostri sacchi a pelo, appena preoccupati dal racconto di un gruppo di italiani incrociati sulla via del ritorno. I malcapitati avevano dovuto rinunciare alla vetta il giorno prima causa le forti raffiche di vento in cresta, in presenza di temperature intorno ai meno quindici. Il giorno dopo abbiamo lasciato il rifugio di buon mattino, diretti al Kibo Hut divisi in due gruppi. Il primo, composto da undici persone, avrebbe seguito la upper route, cioè la via classica di salita (lunga ma non ripida, 5 ore dall'Horombo). Il secondo, formato da cinque volontari, seguendo la lower route (più ripida e articolata, 7 ore) sarebbe passato attraverso la Sella dei venti, tundra pietrosa e desolata che, a 4500 m di quota, congiunge il Mawenzi col Kilimanjaro. Purtroppo abbiamo trovato i laghetti della Sella asciutti, forse per via della stagione secca o forse perché qui le precipitazioni si vanno in media facendo sempre più rare col passare degli anni. Non si sa ancora se il responsabile sia il noto effetto serra, deus ex machina di ogni calamità atmosferica da quando ne è stata dimostrata la pericolosità per i delicati equilibri del clima. Quale che sia la causa, tuttavia, sembra accertato che i ghiacciai del Kilimanjaro, già in fase di ritiro da oltre un secolo, come testimoniato dalle vecchie fotografie, non abbiano più di quarant'anni di vita. Non posso fare altro che invitare gli interessati a venire di persona per ammirare questo superbo residuo dell'ultima era glaciale nel tempo che ancora gli è concesso.

 

Nel volgere di un'ora ci siamo ritrovati al Kibo, l'ultimo rifugio prima del tratto finale. Approfittando del sole alcuni di noi hanno fatto asciugare gli indumenti inumiditi dal sudore stendendoli sopra alcuni massi, per poi sdraiarsi a prendere il sole a torso nudo sulle calde rocce alla rispettabile quota di 4700 m, quasi quanto la cima del monte Bianco. Il cocktail micidiale di mal di testa combinato con la stanchezza è sempre stato in agguato, anche se il peggio lo avremmo sperimentato solo la notte dopo, con l'ultimo sforzo. Riversi sulle rocce dietro al rifugio, riparati dal vento, sembravamo tanti lucertoloni rosa che cercano di immagazzinare quanto più calore possibile per utilizzarlo di notte. Quella sera a cena il piatto unico a base di stufato di patate non ha entusiasmato nessuno, nonostante la sapienza del cuoco nel trattare le inappetenze dovute alla sindrome d'alta quota. Dominati come eravamo dall'apprensione per la salita abbiamo mangiato pressoché in silenzio, senza la voglia di scherzare delle sere precedenti, quando ci sbilanciavamo in improbabili quanto ottimistici toto-cima, oramai talmente a portata di mano e tuttavia ancora così elusiva da far diventare scaramantici anche i più refrattari tra noi. Fissata la sveglia a mezzanotte tutti si sono coricati subito. Fuori, la luce rossa del tramonto incendiava le nere creste del Mawenzi, che si erge a valle del rifugio all'altro estremo della Sella dei Venti, sino a quando il cono d'ombra del Kibo non lo ha ricoperto, nero sul nero. Rientrato in rifugio mi sono sdraiato su una branda, completamente vestito per la partenza, aspettandone l'ora senza riuscire a riposare davvero, sospeso in un sonno inquieto sull'orlo di un mare di sogni caotici.

 

Trenta minuti dopo mezzanotte, riempite le borracce con del tè caldo, eravamo tutti già pronti a partire, per cui si è deciso di anticipare di mezz'ora la partenza, inizialmente prevista per l'una. Siamo saliti ordinatamente, allineati in fila indiana dietro alla guida che procedeva con un ritmo lento e costante durante il lungo tratto iniziale, illuminato da una vivida luce lunare che ha reso inutili i frontali non appena abituata la vista al chiarore della notte. La traccia, facilmente riconoscibile, avanza a zigzag per i primi mille metri di dislivello, in cui si sale per uno smisurato ghiaione di pietrisco e pomice, circostanza che rende l'avanzata assai faticosa. Su questa autostrada di brecce la comitiva si è sgranata, due hanno rinunciato mentre tutti hanno accusato, chi più chi meno, mal di testa e nausea, dovuti principalmente ad un acclimatamento troppo breve. La vetta vera e propria si trova quasi dalla parte opposta rispetto al punto in cui si giunge sul bordo del cratere, la punta di Gillman, per cui occorre circumnavigare la caldera per un paio di chilometri procedendo in cresta, attraversando nevai, ora scendendo ma più di frequente salendo esposti al vento gelido. E' questa la parte più impegnativa, che sovente dispensa il rimpianto di una rinuncia dopo aver regalato l'illusione di un successo. Finalmente alle sei e trenta sono arrivato all'Uhuru peak, la punta libertà, 5895 m, appena in tempo per vedere sorgere il sole. Il cielo era limpido, sospeso al di sopra di un mare di nubi apparentemente solido che nascondeva alla vista le pianure sottostanti. La fantasia ha preso allora il sopravvento lasciando spaziare l'immaginazione là dove lo sguardo non poteva arrivare: dagli alberi di fiamma di Thika alle pianure di Serengeti, dalle montagne della Luna alle guglie del Kenya. Il paesaggio è comunque straordinario, dominato dagli azzurri ghiacciai pensili che poco sotto la cima si precipitano in basso, quasi a voler fondersi con i cumuli delle nubi. Mentre aspettavo l'alba ho scattato qualche foto firmando poi il libro di vetta, impresa non da poco con le dita rese insensibili dal gelo. Alla fine hanno raggiunto la cima undici dei nostri, anche se non tutti contemporaneamente. Ho stappato, come promesso, la bottiglia di spumante (un ottimo brachetto) che avevo portato appositamente dall'Italia per l'occasione, (è bene sia servito freddo, anche se in quel frangente si era parzialmente ghiacciato) offrendone ai presenti. A confutare la diceria che i frequentatori delle montagne sono tutti buoni bevitori solo pochi coraggiosi ne hanno gradito un sorso! Per vincere il freddo e arrivare rapidamente al rifugio sono sceso di corsa. Al pari dell'andata, il tratto più lungo è stato il periplo del bordo, per il quale, anche correndo, si impiega circa mezz'ora. In altri quindici minuti si discendono i rimanenti mille metri di dislivello che separano la punta Gillman dal rifugio: correndo a grandi balzi sugli scoscesi pendii di fine pietrisco mi sembrava di volare. La seconda vetta tra le più alte dei sette continenti era cosa fatta, ora me ne sono rimaste cinque.

Bibliografia

  1. Geoff Crowter Fales, Tanzania & Zanzibar, Uganda Rwanda Burundi Zaire orientale, Guida EDT, Torino, Edizione italiana della Lonely Planet Edizione 1993, pp.272 £ 35.000.
  2. Meridiani n°30, Kenya e Tanzania, Editoriale Domus, £ 12.000.