Nel cinquantesimo anniversario della prima ascensione al Broad Peak di Marcus Schmuck, Fritz Wintersteller, Kurt Diemberger e Hermann Buhl, una mini spedizione di quattro appassionati ha voluto rendere omaggio ai pionieri ripetendo la loro via. Dopo mezzo secolo, grazie ai progressi dell’alpinismo, dei materiali e delle comunicazioni, ripercorrere le tappe dei primi salitori nella stagione estiva non ha più il senso assoluto dell’impresa, ma permette di ritrovare intatto il fascino di una grande salita che il tempo non ha scalfito, oggi come ieri.
Cielo color latte, appena velato da sfumature d'azzurro, e caldo, un caldo prepotente che fa boccheggiare. Così ci accoglie Islamabad, in un’afosa mattinata di fine primavera. Siamo appena arrivati e già non vediamo l'ora di andarcene, di respirare l’aria fresca e pulita delle montagne del Karakorum.
Con me ci sono Adriano, Marco e Sandra, compagni di scalate da tanti anni, il dottor Sergio Roi, medico e preparatore atletico della spedizione e un gruppo di nove trekker. Se vogliamo partire subito dobbiamo darci da fare: non c’è tempo per riposare, neppure qualche ora. Sotto un sole a picco che perdona solo chi è complice della lentezza, incontriamo l’ufficiale di collegamento che ci è stato assegnato dalle autorità. Il capitano Zahed Bashir è un giovane di 24 anni, educato e cortese, che non ha mai messo piede in montagna: il compito di svezzarlo toccherà a noi. Nel primo pomeriggio facciamo il briefing all’Alpine Club: il canuto presidente ci spiega le norme di comportamento da osservare per evitare d’inquinare il Baltoro e ci raccomanda anche di controllare che i nostri portatori baltì abbiano kerosene a sufficienza per cucinare senza dover tagliare arbusti. Nelle alte valli, a una pianta occorrono decenni per crescere e prevenire la deforestazione è anche una nostra responsabilità. Queste direttive sono il segno che il club alpino pakistano sta cercando di proteggere il suo Baltoro, sul quale transitano ogni anno oltre 45 mila persone tra alpinisti, trekker, portatori e militari. Solo a mezzanotte riesco a buttarmi sul letto per riposare un poco: all’alba lasceremo la capitale per farci trasportare dalla fugace tentatrice, l'Avventura.
Imbocchiamo la Karakorum Highway, nota come “strada dell’amicizia”: un tracciato che segue il corso dell’Indo e dell’Hunza per un migliaio di chilometri attraverso valli impervie e passi, tra frane e fango, sino al passo Khunjerab, portale spalancato sul Sinkiang cinese. Il primo giorno ci attendono sedici ore di buche, sudore appiccicaticcio e aria condizionata intermittente, che tuttavia non impediscono a me e ad Adriano di dormire saporitamente. Lungo la strada, i soliti camion improbabili del subcontinente indiano sferragliano e ondeggiano riempiendo l'aria di fumi densi. Tronchi squadrati giacciono accatastati in pile ordinate lungo le rive sabbiose dell'Indo. Quando finalmente giungiamo nella semideserta cittadina di Chilas, è come se fossimo arrivati in paradiso. Il secondo giorno ci va decisamente meglio: “solo” dodici ore di minibus per arrivare a Skardu. Ma la proporzione tra buche e asfalto è rimasta la stessa, direi tre a uno: più che una strada è un quadro astratto di fori bordati di catrame. Centosettanta chilometri prima della nostra meta, appare la mole del Nanga Parbat, impressionante anche visto da lontano, poi la grigia valle dell’Indo si allarga nella tranquilla oasi verde di Skardu. Qui facciamo conoscenza con Simone La Terra, il ragazzo che ha diviso con noi il non proprio economico permesso di salita. Con la sua barbona nera assomiglia a un talebano ed è perfettamente integrato con l’ambiente. Oltre a lui, molte grosse spedizioni sono dirette quest’anno al Broad Peak, in occasione del cinquantenario della prima salita, per cui penso sia meglio iniziare il trek prima possibile. Il mattino successivo, sei ore di jeep lungo le gole del Braldo ci lasciano al villaggio di Askole, attuale capolinea della pista carrozzabile. Da qualche anno una nuova febbre dell’oro ha contagiato il Baltistan: è il business dei cristalli di cui pare trabocchino le viscere di queste montagne. Alcuni contadini lasciano i campi e le famiglie e s’indebitano fino al collo per acquistare le attrezzature necessarie a forare la roccia. Al posto di blocco militare all’ingresso delle gole, ci accoglie un rombo lontano, come di tuono o di salve di cannone: non poteva essere tuono perché la giornata è serena, ma nemmeno cannone, visto che il nostro ufficiale di collegamento ci ha assicurato che - per il momento - le ostilità con l’India sono sospese. Scopriamo così che sono detonazioni di dinamite, con cui gl’improvvisati cercatori stanno trasformando in groviera le loro montagne. Con il ricavato di un grosso geoide di ametista ce ne sarebbe abbastanza per vivere un anno, ma i furbi mediatori di Peshawar fissano i prezzi a seconda della loro convenienza, frodando così una seconda volta i poveri cercatori del Baltistan.
Sino ad Askole il meteo è stato clemente, ma non poteva durare per sempre. Tanto per non smentire la statistica, il primo e il secondo giorno di trekking li passiamo sotto la pioggia e la mia testardaggine nel non coprirmi a dovere, mi procura un potente raffreddore. Per mia fortuna il terzo giorno è dedicato al riposo, a Paiju. Poco oltre, infatti, inizia il difficile sentiero sul ghiacciaio. La sosta è anche un’occasione di festa per i portatori, che si esibiscono in canti e balli per salutare chi tornerà indietro la mattina seguente. La consuetudine vuole che, a Paiju, sia distribuita una razione di carne, sotto forma di... caprette. Per l’occasione i nostri 120 portatori si dividono in pezzi uguali due capre. La carne è un alimento importante e anche noi oggi gustiamo l’ultima razione fresca: se ne riparlerà ad agosto. Dopo Paiju affrontiamo la tappa più impegnativa del trekking: 20 km di saliscendi, pietraie e morene assortite per giungere al campo di Urdukas, a quota 4000. E’ un tratto bellissimo, circondato da vette di granito dai nomi famosi come le Torri di Trango e le cattedrali del Baltoro.
Ci siamo suddivisi in tre gruppi, in base alle caratteristiche atletiche di ciascuno. Il primo (con Adriano piè veloce) si è lanciato in avanti alla conquista delle piazzole per le tende, il secondo (con gli ottimi Marco e Sandra) è composto dai trekker di media levatura e il terzo (con il nostro prezioso dott. Roi) per quelli un filo più lenti o con qualche acciacco. Io faccio un po’ la spola tra il secondo e il terzo gruppo, ed è proprio quest’ultimo a darci le maggiori soddisfazioni. Su consiglio di Sergio, la marcia si interrompe per 10 minuti ogni ora, per riposare e idratarsi: il risultato è stato brillante, perché dopo 10 ore sono arrivati anche gli ultimi. Stanchi, ma non spossati. Questo modo di procedere, riposando e mangiando qualcosa a intervalli cadenzati, permette di recuperare le forze e di affrontare dislivelli considerevoli. L’acqua potabile è però il vero problema di qualsiasi trek sul Baltoro: per quanto si cerchi di purificarla o di bollirla, c’è purtroppo sempre un’alta probabilità di prendersi una dissenteria. Da qualche anno, ai già numerosi portatori si sono aggiunti cavalli e asini lungo lo stretto sentiero ricavato nel ghiaccio, con il risultato che l’acqua di fusione reperibile nei paraggi risulta gravemente inquinata. Il giorno prima del solstizio d’estate, sotto un terso cielo blu, arriviamo al Circo Concordia a 4500 m, circondato dalle più belle montagne del mondo. Concordia è generato dall’unione di tre grandi ghiacciai che scendono rispettivamente dal K2 (il Godwin Austen), dal Broad Peak (il Broad Peak Glacier) e dalle seraccate del Baltoro Kangri. Nella nostra “stanza da letto” abbiamo a destra il gruppo dei Gasherbrum, di fronte l’imponente mole del Broad Peak e a sinistra l’elegante piramide del K2. Emozionanti ottomila, maestosi e colossali. Il silenzio, a Concordia, è rotto solo dal fruscio di un vento leggero, che profuma di ghiaccio.
Nelle calde ore pomeridiane del primo giorno d’estate arriviamo finalmente al campo base del Broad Peak, 4850 m. La montagna è immensa, 3200 m di parete, striata di bianco e punteggiata dai neri gendarmi della cresta ovest, incombono sopra di noi. Si vede tutto il percorso di salita: una spedizione russa e una tedesca hanno già montato il terzo campo. Con il binocolo osserviamo lo ripida cresta sinuosa sopra le nostre teste. Minuscoli puntolini neri si muovono lentamente sulla parete ghiacciata: sono alpinisti che stanno salendo verso il campo due. Al campo base sono arrivate prima di noi solo poche spedizioni, e così abbiamo tutto lo spazio per sistemarci comodamente al centro della morena, proprio sotto l’attacco della via. Con l’aiuto di pala e picca scaviamo il ghiaccio e spostiamo le pietre quel tanto che basta per ricavare alcune piazzole per le nostre tende. Tra pochi giorni arriveranno molte altre spedizioni: attendiamo gli austriaci di Gerfried Göschl con cui siamo in contatto da tempo e gli italiani guidati da Silvio (Gnaro) Mondinelli, al suo quattordicesimo 8000. E poi Alberto Magliano, i baschi di Ivan Vallejo ed Edurne Pasaban, gli spagnoli di Carlos Soria e la bella e forte Gerlinde Kaltenbrunner assieme al fortissimo marito Ralf. Il gruppo di trekking ci lascia: tornerà indietro per la stessa strada perché il passo di Gondoghoro è chiuso. Restiamo in cinque: Sergio si tratterrà al campo per un’altra settimana. Il giorno successivo all’arrivo di solito è dedicato al riposo. Quasi riposo. Perché resta comunque un campo da riorganizzare dopo la partenza dei nostri accompagnatori.
A quasi 5000 m la quota si fa sentire: Adriano e io dormiamo male la prima notte. Il giorno successivo ci concediamo un primo assaggio della montagna. Tra vele di ghiaccio alte come case che trasformano il Godwin Austen in un labirinto, alcuni torrenti glaciali ostacolano l’accesso alla via di salita. Dopo le prime ore del mattino, gonfiati dalle acque di fusione, i corsi d’acqua si trasformano in pericolosi toboga, il più largo dei quali corre al centro del ghiacciaio. Ampio due metri e profondo uno, ha bordi lisci e scivolosi. In passato alcuni alpinisti sono morti proprio in questo fiumiciattolo, trascinati via dalla corrente. La nostra idea è costruire un ponte legando tra loro delle robuste canne di bambù lunghe oltre quattro metri. A questa impresa di alta ingegneria partecipa anche il nostro ufficiale di collegamento, Zahed, che si prodiga per trovare i bambù necessari, “donati” dai vicini accampamenti militari. Superato il torrente risaliamo una ripida morena, poi un pendio nevoso che si allarga in un ampio couloir che porta al campo uno. Una prima ricognizione ci conferma che c’è posto solo per sei o sette tende. Tutte le
piazzole sono già occupate dagli alpinisti delle prime spedizioni della stagione, ormai in procinto di tentare la vetta. Così ci limitiamo a un deposito (fare un deposito vuol dire lasciare sulla montagna i materiali, in modo da averne meno da trasportare su e giù) e decidiamo di montare le tende direttamente al campo due. Sandra, Marco e Adriano partono la mattina del 24 giugno verso il campo due, mentre io rimando la salita di un giorno: spero di incontrarli mentre scendono. Oggi infatti risento ancora dei postumi del raffreddore e della tosse per cui dedico la giornata alle "pubbliche relazioni". Insieme al dottor Roi vado al vicino campo base del K2 a fare una visita alla spedizione italiana di Daniele Nardi, l’alpinista di Sezze che noi quattro abbiamo già conosciuto nel 2004 sull'Everest. Al suo seguito c’è una troupe televisiva della RAI capeggiata da Marco Mazzocchi che intende realizzare un filmato della salita.
Un paio di giorni dopo si sparge la notizia che alcuni membri della spedizione dell’Amical hanno raggiunto la vetta del Broad Peak in condizioni proibitive, con vento forte e molta neve fresca. Non riesco a saperne di più: l’unica certezza è l’arrivo di un elicottero, atterrato al campo base per evacuare un’alpinista tedesca con dei congelamenti ai piedi. Salendo al campo uno incontro il mio amico russo Serghiej, che ha raggiunto il campo quattro lo stesso giorno dei tedeschi per un ultimo tentativo arrestatosi sulla sella tra la cima centrale e la cima sud. Come faccio a conoscere i russi? Serghiej l'ho incontrato sull'Elbrus un paio di anni fa, dove lavora in estate come guida. Alla fine gira e gira siamo sempre più o meno gli stessi, ci conosciamo un po' tutti, a volte solo per nome. Anche i russi si sposteranno sul K2, ma non so se ci ritroveremo o se se ne andranno prima. Intanto il campo base del Broad Peak inizia a popolarsi: è arrivato il gruppone italiano di Silvio Mondinelli che ha piantato le tende molto più in basso lungo il ghiacciaio, a circa un chilometro dalle nostre.
Mentre Marco, Sandra e Adriano si riposano al campo base, salgo da solo sino al C2 dove passo la notte. C'è un tempo orribile e dormo malissimo. Per acclimatarsi è necessario salire e scendere più volte, finché l'organismo progressivamente si abitua alla quota e riesce a recuperare anche fino a settemila metri. Ritorno al campo base il mattino seguente sotto una leggera nevicata. Le previsioni per i prossimi tre giorni non sono buone e ne approfittiamo per riposare, fare piani e chiacchierare con i nuovi arrivati. Considerando che, nella media, i giorni di maltempo sul Baltoro sono tanti quanti quelli buoni, non manca mai il tempo per leggere, lavare e… cucinare. Così, per variare un po’ la monotona dieta del nostro cuoco pakistano, decidiamo di concederci una leccornia: un baccalà (rigorosamente Ragno) con contorno di polenta che Sandra aveva portato per i tempi grami. I preparativi devono iniziare almeno 24 ore prima, in modo da farlo ben ammollare in acqua. Sorvolo sui dettagli della nostra tipica dieta quotidiana, aggiungo solo che abbiamo dovuto "insegnare" al cuoco come cucinare la pasta al dente, attualmente il non plus ultra gastronomico della nostra mensa. L'ottimo Simone ogni tanto si impietosisce e ci passa dei salamini... E' vero che ci siamo portati da casa pure dei tortellini, ma quelli li vorrei tenere per i campi alti. Neanche l'aceto è "normale". Non essendoci produzione di vino qui in Pakistan, si utilizza acido acetico allungato con acqua e zucchero: l'odore e il sapore ve li lascio immaginare, il colore è trasparente. Il tempo libero al campo base è assorbito anche da problemi di ristrutturazione: il ghiaccio intorno alle nostre tende si scioglie in continuazione per il gran caldo e ci ritroviamo giorno dopo giorno arroccati in cima a un cono di ghiaccio sempre più ripido. Oggi, 29 giugno, piove a dirotto. Ventiquattr’ore d’acqua a catinelle che nelle prime ore dell'alba si solidificano in cinque centimetri di neve. Tutti quelli che si trovavano ai campi alti sono scesi: lassù c'è tormenta. Le previsioni dicono che sarà brutto per altri tre giorni, e la cosa m’impensierisce, soprattutto per la batteria del satellitare che si sta scaricando.
La vita è breve, solitaria e puzzolente. Colto da un attacco di diarrea, su questo medito alle tre di notte, accovacciato su di una turca di pietra con solo un fragile telo a proteggermi dalle folate di neve. Le spedizioni sono fatte anche di questo. Anzi, per lo più di questo, se proprio volete saperlo. Qualche confetto di Bimixin dopo, anche il nostro prezioso consigliere, il dott. Sergio Roi, ci lascia, per intraprendere il lungo cammino solitario verso Askole, verso la fine delle sue ferie. Più si sforza di apparire sereno, più il suo viso prende il colore della neve e il suo sorriso sembra tirato. Sarà perché teme di restar solo? Eppure una punta di invidia la provo, mentre si allontana. La sua via è ora in discesa, mentre la nostra è tutta in salita. Oggi il programma è attendere, spazzare la neve, asciugare i vestiti e magari fare qualche visita di cortesia. Al campo base, oltre a Edurne, è arrivata anche Gerlinde.
La basca e l’austriaca, assieme all’italiana Nives Meroi, sono tra le più forti alpiniste d’alta quota al mondo, tutte molto avanti nella sfida ai 14 ottomila. Voglio sentire i loro racconti, sognare già altre vette. Dopo una breve parentesi di sole è tornato il brutto tempo, bruttissimo. Rombi continui di slavine e un’umidità da schifo. Dire che siamo giù di morale, è un eufemismo. Adriano è sempre più inquieto e taciturno: senza azione s’incupisce. Novanta alpinisti osservano il cielo e imprecano in tutte le lingue del mondo. Il Chogolisa, la nostra miglior bussola meteorologica, resta invisibile, coperto da dense nubi grigie che scaricano pioggia e neve. Brutto segno! Per la seconda notte consecutiva ci siamo alzati alle tre e mezzo per salire dal campo base al campo due, e per la seconda volta ci siamo ritrovati sotto una fitta nevicata che ci ha costretti a desistere. Sono ormai svariati giorni che il copione è il medesimo: neve di notte, poi nuvole durante il giorno. Schiarite serali che promettono bel tempo per il giorno successivo, puntualmente smentite dai fatti. Questa notte potrebbe essere quella giusta.
Oggi siamo stati invitati al campo dei baschi: tutto un altro mondo. Avete presente la nostra pasta in bianco, il generatore a prestito, i salamini in regalo da Simone? Adesso immaginatevi un jamon serrano (intero! tutta la succulenta cosciotta) appeso in tenda, luce elettrica, sedie comode, bicchieri di vetro, carne di maiale in quantità, pecorino, affumicati e secchi di Nutella. Praticamente manca solo la piscina! Ci siamo sentiti come Paolino Paperino in visita al cugino Gastone… Abbiamo però fatto attenzione a non sbavare in giro per la loro lindissima e ampissima tenda mensa, e così ci hanno offerto tutto il possibile (che abbiamo trangugiato) e ci hanno anche invitati a tornare! Non mi sono neanche lasciato sfuggire un'intervista a Edurne, una dei nostri gentilissimi ospiti. Con questo
tempo non mi resta che darmi al giornalismo. Il tre luglio finalmente il cielo si apre, e così raggiungiamo tutti e quattro il campo due per dormirci. Il mattino dopo proseguiamo verso l’alto per montare il campo tre, che nelle nostre intenzioni è anche l’ultimo prima della vetta. Sandra, Marco e Adriano sono rimasti a dormire al tre, mentre io, a causa di un persistente mal di testa, sono obbligato a scendere e passare la notte al campo due. Mi secca questa storia del mal di testa, ma non posso passarci sopra e far finta di niente, non sia mai che mi prenda un edema cerebrale. E' arrivato il momento giusto per chiedermi "che ci faccio qui". La logica non ammette scappatoie. Quella manciata di minuti di felicità in vetta (ammesso che riesca a raggiungerla) appaiono una piccola ricompensa per un mese di fatiche, pericoli e patimenti. Ci deve essere dell'altro, ma non è facile capire di cosa si tratti. Che cosa spinge il plotone internazionale di masochisti di cui faccio parte anch'io, a una faticosa masturbazione lunga un mese? La mia risposta parte da lontano, dal basso, dal piano, dal rubinetto di casa. Penso a un bel bicchiere di acqua limpida e potabile della mia cucina. Dietro a quel bicchiere c'è un acquedotto, una rete idrica, svariati punti di controllo di qualità. Ai campi base sul ghiacciaio del Baltoro, l’acqua è torbida e inquinata e va bollita, ma per via della quota bolle a una temperatura più bassa, non si sterilizza provocando frequenti dissenterie.
E il suo gusto assomiglia più a quello dell’acqua distillata delle batterie, che a quello del rubinetto di casa. Ai campi alti poi si trova solo neve e ghiaccio. Per bere occorre sciogliere la neve - spesso nella stessa pentola dove si è cucinato il cibo - e il risultato è sempre acqua calda, ma con in più con un retrogusto sgradevole che le polverine non riescono mai a cancellare del tutto. In questi frangenti le relative comodità del campo base, con i suoi thermos sempre pieni e un'ampia scelta di bustine al gusto d'arancia o limone, tè o caffè, si fanno rimpiangere. Il giorno della vetta, infine, durante le interminabili faticosissime ore della salita, quando le labbra bruciano e i passi si fanno lenti per la mancanza di ossigeno, persino i disagi dei campi alti si fanno desiderare. Così, tanto più mi avvicino a non avere nulla, alla linea di confine tra vita e non vita ecco che riscopro il valore enorme del poco rispetto al niente e all’immenso lusso che mi concedo quando, seduto sul divano di casa sorseggio distrattamente un bicchiere di comunissima acqua di rubinetto. Riusciamo ad apprezzare il valore delle cose solo quando ne siamo privati, e le fatiche dell’alta quota diventano un modo per ritarare periodicamente la nostra bussola dei valori, per riapprendere ad apprezzare le piccole cose. Non è il brivido del rischio che mi porta ad affrontare i disagi, né la mistica della montagna, che lascio volentieri ai poeti e agli esperti. E' piuttosto la possibilità di rivalutare quello che ho e che con troppa disinvoltura do per scontato. Beni preziosi come la salute, l'affetto delle persone care e, perché no, la possibilità di godermi un comune bicchiere d'acqua come se fosse il miglior vino del mondo.
Il giorno dopo scendiamo tutti e quattro al campo base sotto una bella nevicata: pare che ora ci attendano altri due giorni di maltempo. Ora però siamo pronti per la cima: ci laviamo per benino, ci sbarbiamo e ci facciamo belli... Stiamo bene e il morale è ottimo, ma oltre il campo tre la neve supera il mezzo metro e per batter traccia dovremo concertare gli sforzi con le altre spedizioni. Stufi di bere aranciata calda abbiamo acquistato da un portatore di passaggio per 13 Euro una bottiglia di Pepsi: ci pare meglio di un Cartizze (e costa anche di più...). Tutto ha principio e fine, e così arriva la tanto attesa finestra di tre giorni: è la nostra. Aspettiamo un giorno ancora per dar tempo alla neve di assestarsi, e partiamo al solito orario dal campo base in compagnia dei baschi, diretti al campo due. Il giorno successivo saliamo al campo tre, dove ci raggiungono Gnaro e Marco Confortola che arrivano direttamente dal base.
Alla mezzanotte del 12 luglio tutti i presenti al campo tre si muovono all’unisono per il tentativo alla vetta, e noi con loro. La via di salita è ripida e torreggia sopra di noi: le montagne del Karakorum non fanno sconti, dure e aspre come questa terra. Se si scivola dal campo uno o si precipita oltre il filo di cresta dal campo due, si arriva direttamente al campo base. Bisogna far attenzione al ghiaccio vivo e alla caduta pietre, alcune smosse anche da altri alpinisti malaccorti. C'è già stato un ferito americano, evacuato qualche giorno fa in elicottero, colpito alla tibia da una pietra. Le difficoltà maggiori del Broad Peak stanno però oltre il campo tre: sono costituite dal ripido pendio innevato, dalla seraccata da attraversare in diagonale e dai grandi crepacci da aggirare a 7600 metri. Infine c’è il crestone finale roccioso, esposto e costellato di gendarmi, con le insidiose cornici sospese sul vuoto del versante tibetano. Oltre a tutto c’è l’effetto della quota, che ti taglia le gambe. Sopra i 7000 metri il respiro si fa più difficile. Da quassù il panorama è… mettete l'aggettivo che preferite, il più roboante, poi moltiplicatelo. Ecco, il panorama è proprio così.
Oggi è previsto un peggioramento del tempo dopo mezzogiorno: speriamo di essere già sulla via del ritorno, anche se i 1100 metri di dislivello che ci separano dalla vetta sono veramente tanti. Ci seccherebbe non poco dover rinunciare a un passo dalla cima, soprattutto perché sembra che poi il tempo sarà infame per parecchi giorni. Poco dopo mezzogiorno, Marco e Sandra seguiti da Adriano raggiungono la vetta, assieme ai baschi e a Gnaro. Io mi fermo duecento e cinquanta metri sotto, sulla sella tra la cima centrale e la sud. Dopo otto ore di salita notturna lungo il versante in ombra ho perso la sensibilità alla punta delle dita dei piedi e ho avuto paura di non farcela a tornare indietro integro. C'era freddo, tanto vento, e la salita è stata durissima. Pago sicuramente il fatto di aver passato solo una notte al campo tre prima del tentativo alla vetta, e forse mi manca ancora un po' di acclimatazione, senza contare l’errore di non aver indossato la tuta integrale di piumino. Torno sui miei passi, e attendo i miei compagni vittoriosi al campo tre, dove mi raggiungono verso sera, stravolti ma contenti: 17 ore e 45 minuti tra salita e discesa dal campo tre passando per la cima, non esattamente una passeggiata. Siamo andati su con i migliori, Gnaro, Ivan, Gerlinde, Edurne... e avevamo il loro passo. E questo, per della gente comune come noi, è un grande successo e un immenso orgoglio. Come mi disse una volta Riccardo Cassin, grande vecchio dell'alpinismo, non siamo noi che non riusciamo a salire, sono le montagne che non ci vogliono. E il Broad Peak di me non ne ha voluto sapere. E' anche vero che mi sono presentato al suo cospetto non esattamente alla sua altezza… per cui gli dico: arrivederci alla prossima.