"Togli all'uomo l'avventura ed il mistero,
e il vivere si riduce a un noioso transito di cibo".
(Giuseppe Tucci)
Questa è la cronaca, infedele e parziale come ogni resoconto sublimato dalla memoria, della “2001 Karakorum Expedition”, una Spedizione alpinistica nelle alte valli del Pakistan il cui obiettivo era la salita del Gasherbrum II, ovvero “la Splendida Cima” in lingua Baltì. E’ il racconto di un fallimento. Né più né meno che un tentativo non riuscito la cui pianificazione e preparazione è però costata ai partecipanti quasi un anno d’impegno e allenamento. E’ stata un’avventura verticale, a conferma di quanto sia ardua la via che divide l’idea dall’esito e i desideri dalla realtà.
Immaginate una piramide irregolare di granito che si erge per quasi tremila metri al di sopra dei tormentati fiumi di ghiaccio che la circondano sui tre lati. La base della piramide è ricoperta per tre quarti da labili seraccate, che solo la morsa del gelo trattiene dal richiamo irresistibile della gravità. Bisogna immaginarsela così, mentre otto minuscoli puntini neri, sette uomini e una donna, risalgono la sinuosa cresta innevata della Via degli Austriaci, confusi nell’abbacinante riflesso dell’immensa parete segnata da profondi crepacci, grandi seraccate e salti verticali. Otto alpinisti e altrettante motivazioni, otto persone accomunate dalla medesima fragile ambizione, dalla stessa tenace illusione di riuscire a dominare sé stessi, e gli eventi, scalando una montagna. Alta, però. Alta e impegnativa. Una delle più alte e impegnative. Così, tanto per provare. Per provare quel sottile piacere rappresentato dal compiere un piccolo passo verso l’ignoto, in ugual misura rappresentato dai pericoli della montagna e da quelli dovuti a sé stessi. Per sperimentare il brivido ineffabile di giocare sul confine dei propri limiti.
Ogni storia vive attraverso i propri personaggi ed è bene ora procedere subito alle presentazioni. Persone che scelgono per hobby i notevoli rischi connessi all’alpinismo himalayano non possono essere del tutto esenti da tare, per quanto si voglia estendere l’ambiguo concetto di normalità. Nel senso che questa gente qualche rotella fuori posto in più rispetto alla norma deve pur averla, altrimenti non se ne andrebbe in giro a cercar guai, pagandoli pure salati. Quaranta giorni a stretto contatto, spesso gomito a gomito in situazioni critiche, sono più che sufficienti a complicare qualsiasi convivenza. Se al difficile connubio aggiungiamo la componente eccentrica ed egocentrica della personalità degli alpinisti, allora la miscela risultante può diventare esplosiva.
Il primato quanto ad esperienza, determinazione e fine strategia va senza dubbio a Giampaolo, che non ha mai deflesso un solo istante dall’obiettivo. Pacato e riflessivo, accorto e ispirato, ha trovato nel maltempo il solo vero ostacolo in grado di frustrarne le mire. Senz’ombra di dubbio il miglior candidato ad aggiungere una seconda candelina alla personalissima torta degli 8000 conquistati. Di solito, delle signore si tace l’età per esorcizzare con l’inespresso la devastante opera del tempo, ma i 45 anni di Annamaria costituiscono una notevole eccezione. L’aria da giovinetta sbarazzina unitamente al coraggio d’esporre la pelle nuda alle ruvide carezze del sole d’alta quota erano lì a dimostrare come, a volte, non si possa tracciare un netto confine tra coraggio e incoscienza. Disponibile e generoso con tutti, Marco è sempre stato accanto alla sua amica Annamaria assolvendo a compiti molteplici, dal trasporto dello zaino al montaggio della tenda. La sua, più che una scalata, è stata una scelta penitenziale. Frederic, la matricola della spedizione, ha egregiamente superato ogni difficoltà affidandosi allo humour e alla sua corporatura di solido ragazzone friulano. Alcuni lievi malesseri in quota non gli hanno impedito di renderci sempre partecipi dei suoi estemporanei motti di spirito che ci hanno strappato più di un sorriso. Gianluca, al pari del bello del Gruppo TNT, era il più preparato e allenato.
Simpatico e alla mano è sempre stato di compagnia e non ha mai mostrato turbe psichiche degne di nota. Di sicuro un compagno con cui ripetere l’avventura. Introverso e silenzioso, Adriano aveva tutte le carte in regola per la vetta. Per colmo di sventura la salute non lo ha sempre accompagnato, peggiorando addirittura nel giorno decisivo. Coerente con sé stesso, mai si è lamentato delle proprie condizioni. Considerando le grandi potenzialità, avrebbe meritato un fato più benevolo. Giorgio ha manifestato, più di ogni altro, quegli insidiosi cambiamenti di personalità indotti, senza che se ne rendesse conto, dalla quota e dallo stress prolungato. Gentile e ironico come d’abitudine è caduto preda di ansie e paranoie lo hanno reso scontroso e ipercritico, a dimostrazione che gli ostacoli più insidiosi si celano sempre e solo dentro di noi. Giuseppe, il capo spedizione, ha più di una scusa da rivolgere a tutti i partecipanti per le sue intemperanze, inesattezze e omissioni. La sua mancanza d’esperienza ha certamente giocato un ruolo nella complessa gestione della logistica e i suoi ringraziamenti non potranno mai compensare abbastanza l’indulgenza dimostratagli da tutti. Il capitano Malik, simpatico e logorroico ufficiale di collegamento, è presto diventato la macchietta dellaspedizione. Alla sua prima esperienza di alta montagna ha sostituito subito ogni velleità di scalata coifestini in compagnia dei suoi colleghi ufficiali. Servito e riverito, da buon sibarita ha sempre concesso al sole di alzarsi ben alto sull’orizzonte prima di mettere il naso fuori dalla tenda. Un giudizio lusinghiero per l’impegno e la dedizione mostrate va al cuoco pachistano Ehsan Karim, soprannominato Michel, e al suo aiutante. Il loro contributo è stato particolarmente importante perché la gratificazione del palato è decisiva per il sostentamento dello spirito. A loro i nostri più sentiti ringraziamenti. Un pensiero va infine ai due membri pachistani aggregatisi alla spedizione: il non più giovane Karim Imamdad e il suo ventenne compagno Jahved Ali. Nonostante qualche acciacco, è ammirevole lo spirito con cui Karim hadeciso di ritornare dalla Francia tra le vette della sua gioventù per rivivere ancora una volta il fascino di un’avventura senza fine.
I 108 portatori radunati alla partenza presso Skardu dall’Agenzia locale “North Pakistan Treks & Tours” hanno assolto al gravoso compito di trasportare a spalla fino al ghiacciaio “Duca degli Abruzzi”, a 5150 metri di quota, oltre una tonnellata di equipaggiamento e viveri necessari per assicurare una permanenza al campo base di quattro settimane. La traversata delle gole del Braldo e del ghiacciaio del Baltoro ha richiesto ben sette giorni di marcia prima di giungere in vista della nostra meta, il campo base.
Superata Askole, camminiamo costeggiando le torbide acque mugghianti del Braldo sino ad un'alta morena posta alla confluenza con il ghiacciaio Biafo, il cui spessore supera in alcuni punti i mille metri. La valle s'inoltra per una cinquantina di chilometri fino ad un circo glaciale posto a 5200 metri di quota, contornato da picchi ancor più alti, per poi ridiscendere d'altrettanto nella valle dell'Hispar. E' uno dei sistemi glaciali più grandi del mondo ad esclusione delle zone artiche. Korfong è una macchia d'alberi bassi e nodosi riparati dalla morena dal vento gelido che spira incessante dal Biafo come l'aria da una cella frigorifera spalancata. Il sentiero prosegue a mezza costa, ora abbassandosi sin quasi a sfiorare la corrente impetuosa del Braldo ora rialzandosi per qualche decina di metri sopra le acque vorticose. Pare scavato con l'esplosivo nella roccia a picco sul fiume, dove si apre quel tanto che basta per lasciare passare un uomo. Lungo la pista si osservano abbondanti tracce del passaggio di asini e cavalli, impiegati esclusivamente per rifornire i posti militari che sorgono lungo la valle. Le zone di confine sono presidiate dall'esercito, la cui presenza è legata più a motivi di prestigio che ad una reale esigenza di difesa contro un'improbabile offensiva terrestre sferrata attraverso regioni impervie e invase dai ghiacci per la maggior parte dell'anno. All’improvviso il sentiero scompare, sommerso dalla rapida corrente. Per proseguire occorre seguire una cengia stretta e ripida che strapiomba sulle acque turbinose. Lo stretto risalto compie una brusca svolta alla confluenza con la valle del Dumordo che risale con una lunga deviazione sino al punto in cui si restringe tanto da permetterne l'attraversamento su di un instabile ponte sospeso. Si riprende così il corso del Biaho Lungpa, torrente che sgorga direttamente dalla bocca del Baltoro, un antro oscuro di forma semicircolare la cui volta si perde nelle viscere del ghiacciaio. Una ripida parete ghiacciata color grigio cenere torreggia imponente sul fondovalle per poi suddividersi in molteplici lingue solcate da crepacci e sovrastate da massi pericolanti di ogni forma e dimensione. L'orizzonte è chiuso da imponenti pareti triangolari di solido granito color ruggine venato da riflessi grigi che si tingono di rosa sotto i raggi del sole al tramonta, sono le Torri di Trango, sfida e richiamo potente per i migliori alpinisti. Sul lato opposto, con la base celata da neri contrafforti, spuntano alcune cime del gruppo dei Masherbrum, incappucciate da immacolati ghiacci perenni e difese da vertiginosi seracchi che strapiombano in abissi invisibili. Il fascino di questa visione risiede nell'enormità delle proporzioni e nel brivido che trasmette il paesaggio primordiale, all'apparenza immutabile eppure in perenne trasformazione, i cui ritmi, dal lento rifluire dei ghiacciai alla genesi delle montagne, si misurano in secoli e millenni.
Nonostante sia un enorme fiume di ghiaccio, la superficie del Baltoro è notevolmente accidentata perché solcata da alte creste e morene ricoperte da una spessa coltre di macigni, sassi e ciottoli, trasportati dal ghiaccio sottostante che scorre verso valle come un nastro trasportatore. Qua e là si aprono crepacci profondi, accanto a laghetti verdastri riempiti dalle acque di scioglimento. Torrenti vorticosi sbarrano il cammino scorrendo spumeggianti entro levigati toboga di ghiaccio azzurro per scomparire di botto inghiottiti da profondi pozzi. Per questo risulta assai più agevole risalire il ghiacciaio tenendosene per quanto possibile all'esterno, sul filo delle morene laterali o percorrendo sentieri che si arrampicano alti sui fianchi della valle. Più si sale, con maggior frequenza spuntano tra le rocce splendenti blocchi di ghiaccio liscio alti come palazzi, soprannominati le "vele" del Baltoro. Ogni valle laterale contribuisce con un proprio affluente glaciale che si fonde al corso principale in un caos simile ad un mare in tempesta. A quota 4600 metri, la vista si apre per spaziare su di un ampio circo generato dall'incontro di tre grandi ghiacciai, il Godwin Austen, che scende dal K2, il Broad Peak Glacier, che precipita dall'omonima montagna, e l'upper Baltoro Glacier, che nasce da lontane seraccate aggrappate ai fianchi del Baltoro Kangri. E’ Concordia, dove lo sguardo può finalmente spaziare su monti che superano gli ottomila metri, ancor distanti eppure tali da costringere ad alzare lo sguardo per ammirarli. Sulla destra il gruppo dei Gasherbrum, nascosto quasi per intero dalla mole del GIV, di fronte sbarra il cammino la mole del Broad Peak, a sinistra, al termine del Godwin Austen, svetta la nera piramide del K2, venticinque volte il volume del Cervino. Le proporzioni colossali, i chilometri verticali di pareti, incombenti eppure ancora assai distanti, hanno fatto e fanno di Concordia il punto d'osservazione ideale, il balcone proteso sull'estremo nonché trampolino di lancio dei sogni e dei desideri d'intere generazioni d'appassionati di montagna.
Il principe Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, esplorò per primo,all’inizio del secolo scorso, il ghiacciaio che scende dal gruppo dei Gasherbrum e che ancor oggi porta il suo nome. Il campo base si trova al centro del ghiacciaio, allungato su di una sottile striscia morenica alla quota di circa 5150 metri. Durante le belle giornate estive la fortissima insolazione è in grado di sciogliere uno strato superficiale di ghiaccio dello spessore di una decina di centimetri. L’acqua di fusione ruscella ovunque inmille rivoli, lasciando scoperte pietre e ghiaia scura che formano un terreno sassoso che si accresce giorno per giorno. Quando passa una perturbazione si possono accumulare nel corso di una notte fino a venti centimetri di neve che poi scompaiono quasi interamente nel volgere di un paio digiorni. In assenza di nubi, la temperatura interna delle tende può superare i +40 °C, ma al tramonto, quando il sole si eclissa dietro alle alte montagne che racchiudono il fiume glaciale, entro pochi minuti latemperatura precipita sottozero per via della formidabile escursione termica dovuta all’aria sottile. L’isobara dei 500 millibar, vale a dire mezza atmosfera, corre poco al di sopra della quota del campo base e appena arrivatiqualsiasi movimento costa fatica, costringendo a fermarsi per riprenderfiato. Tutto intorno non c’è traccia di vegetazione, ma certi insetti, come le mosche, riescono in qualche modo a sopravvivere pure a questaquota. E’ difficile pensare ad un luogo più inospitale, eppure, nel corso del mese della nostra permanenza, è diventato la nostra “casa”, un posto relativamente confortevole dove rifocillarsi e riposare, un rifugio sicuro assai desiderabile dopo un soggiorno ai campi alti.
Oggi, 7° giorno dal nostro arrivo, ci ritroviamo tutti nella tenda mensa, ad attendere che passi una perturbazione. La neve cade, pesante e umida. Il muro opaco della cortina di fiocchi soffoca il rombo di lontane valanghe che, ad intervalli quasi regolari, si staccano dalle vertiginose pareti intorno a noi per dissolversi in un’eterea nube bianca al termine della corsa. “Ecco l’espresso delle 17:30”. Oggi è in ritardo di cinque minuti!” proclama Frederic. Un impercettibile rialzo della temperatura trasforma i morbidi fiocchi in grani compatti che percuotono latenda producendo un sommesso crepitio. Di tanto in tanto, uno schiocco più forte degli altri tradisce gli spari a casaccio dell’artiglieria pakistana appostata sulla sella Conway a fronteggiare le equivalenti postazioni militari indiane. E’ una guerra non dichiarata, uno scontro di posizione che prevede periodici scambi di cortesie, quasi dei tiri di saluto. Un modo tutto militare per spezzare il tedio dell’ennesima monotona giornata passata tra i ghiacci a 6000 metri nell’attesa della fine del proprio turno di servizio. Sparano per sentirsi vivi.
La seraccata dei Gasherbrum confluisce nel ghiacciaio Duca degli Abruzzi all’altezza del campo base. La muraglia di ghiaccio, vista dal basso, appare insuperabile: un labirinto di torri, guglie e gendarmi affastellati gli uni agli altri in equilibrio precario a formare un tormentato caos lungo cinque chilometri. Allaquota di seimila metri i seracchi cedono posto ad un plateau pianeggiante attraversato da enormi fenditure longitudinali. Le vette del gruppo dei Gasherbrum sono numerate in senso antiorario, in ordine d’altezza decrescente, dalla più alta, l’Hidden Peak, alla più bassa, la numero sei. Le pareti strapiombanti racchiudono un vasto pianoro glaciale al cui centro, in posizione relativamente riparata dalle slavine, sorge il campo uno. In tale ambiente anche il concetto di sicurezza è alquanto labile. In caso di maltempo prolungato nessun luogo al di sopradel campo base si può considerare al riparo dalle valanghe, che sono colossali come il paesaggio circostante. La salita verso il campo uno si compie solitamente di notte, con partenza intorno alle due, alla luce delle lampade frontali per minimizzare i rischi connessi alcedimento dei ponti di neve. Infatti, durante il giorno, il riverbero del sole e l'effetto di concentrazionedella radiazione sciolgono il ghiaccio, trasformando la parte bassa del ghiacciaio in un insidioso pantano. In cinque ore di salita notturna raggiungiamo il plateau alla base dei Gasherbrum, dove montiamo il primo campo, prima di rifugiarci all'interno delle tende per sfuggire al sole implacabile, spogliati in mutande e boccheggiando per il caldo.
Dal campo uno al successivo la via sale per cinquecento ripidi metri attrezzati in genere con corde fisse. Durante la notte una leggera nevicata riporta la temperatura a valori normali, cancellando il caldo asfissiante dei giorni scorsi. Trascorsa la notte, il tempo pare migliorare e Giorgio ed io decidiamo di salire al campo 2, mentre Adriano è costretto a rientrare alla base a causa di malesseri. Il campo due è posto in un piccolo spiazzo davanti ad una parete di seracchi. Saliamo lungo le corde fisse, superando dapprima un couloir ghiacciato e poi un'erta cresta sinuosa. Le corde fisse sono largamente impiegate nelle ascensioni himalayane perché riducono i tempi morti e accelerano la discesa in caso di maltempo. Sono pure di estrema utilità nel segnare la via e, anche se i puristi ne parlano storcendo il naso, ho visto ben pochi alpinisti che ne disdegnassero l'uso. Purtroppo il cielo, dopo numerosi giorni consecutivi di sole, ha mutato aspetto. Ieri mattina, salendo, avevo notato l’immensa forma di un’ombra, un velo compatto di cirri provenienti da sud-est, che avanzavano scacciando l’azzurro, avvisaglia dell’arrivo anticipato del monsone. Giorgio ed io decidiamo di attendere un giorno al campo 2, mentre Gianluca, Giampaolo e Frederic, fanno lo stesso al campo 3 cinquecento metri più in alto, in attesa dell'occasione propizia per tentare la vetta, la notte del 14 luglio. Ma i venti centimetri di neve caduta nel corso della notte ostacolano l’avanzata di Giampaolo, Gianluca e Frederic, che raggiunta quota 7300, decidono di rinunciare giusto in tempo per scendere precipitosamente nel bel mezzo di una tormenta. Assieme a Giorgio decido di cimentarmi in un secondo tentativo, perché, saliti al campo 3, il tempo pare essersi ristabilito. Ma è stata un'illusione durata un giorno, perché il miglioramento apparente preludeva ad un nuovo, questa volta definitivo, peggioramento.
Un vento a 100 chilometri l’ora trasporta minuscoli grani di neve dura, sollevandoli in turbini che si abbattono sul fragile telo della tenda. L'effetto mi ricorda il ticchettio irregolare della grandine. Questo rumore mi desta dal fragile torpore in cui mi trovo, riaccendendo di colpo il motore della coscienza.Lentamente realizzo dove sono. Premo il pulsante dell’orologio e per un attimo una tenue luce azzurra rischiara l'interno del sacco piuma dove sono rinchiuso. Sono le 2:45. Durante la notte, la quota apparente indicata dall'altimetro si è ulteriormente alzata, giungendo a 7070 metri. Di questo passo, arriveremo in cima senza neppure uscire dalla tenda! Fuori è bufera, gelo e tenebra, dentro, brina, freddo e oscurità. Mai come in questo momento ho tanto desiderato essere altrove, ma non posso eludere il fatto che solo un fragile bozzolo ci protegge dalla bufera che scuote la notte sulla sommità di un pilastro di granito glassato di ghiaccio, un migliaio di metri sotto alla vetta del Gasherbrum II. Sono ormai tre giorni che Giorgio e io viviamo assediati qui, su di un minuscolo fazzoletto nevoso aggrappato alla cresta sud-ovest della montagna, il campo 3. All’interno, il rombo della tempesta sovrasta le nostre voci. Ogni illusione di successo, qualsiasi velleità di raggiungere la cima è ormai svanita, spazzata via dalle violente raffiche di maestrale che accumulano con preoccupante rapidità mucchi di neve compatta a premere contro il sottile involucro in goretex. Le folate sembrano voler strappare gli ancoraggi ma intanto si sono già portate via sogni e illusioni per lasciare spazio alla paura. Vorrei essere più in basso, al campo base, dove i cinque gradi sottozero di minima notturna rappresentano l’approssimazione più tangibile del Paradiso. Come in un gioco delle parti la volontà di salire si è liquefatta a poco a poco, consumata dalla successione di 70 monotone ore d’immobilità forzata nell’attesa di un miglioramento che tardava a venire. All’inizio, non immaginavo come una scelta di rinuncia potesse comportare un tale rovesciamento di prospettiva, sino a trasformare la classica sfida alla vetta in una lotta per la sopravvivenza in discesa. Quello a cui non osavo neppure pensare è già una realtà superata dagli eventi. E’ tempo di scendere, e in fretta! Ma tra il desiderio e la realtà si frappongono duemila metri di dislivello e un metro di neve fresca caduta durante le ultime 48 ore. La nevicata ha cancellato le tracce lasciate in salita, seppellendo le corde fisse e interrompendole in un tratto critico. Il nevischio cade incessante, riducendo la visibilità a pochi metri, mentre il vento non accenna a diminuire d’intensità. Salire è infattibile, restare impossibile, scendere pericoloso. Il campo 3 è stato ormai completamente abbandonato dai membri delle altre spedizioni. Sono rimasti quattro baschi e due spagnoli, bloccati in quota come noi dal maltempo. Uno di loro ci viene ad avvisare che fra breve tenteranno comunque la discesa. Guardo Giorgio e intanto, automaticamente, comincio ad infilare il mio materiale nello zaino. “Io ora scendo dopo di loro. Preparati anche tu, e in fretta, perché persa questa occasione non ne avremo altre”. Giorgio accenna a una protesta, ma intanto si riveste più in fretta che può. Fuori, il vento sta già cancellando le tracce vecchie solo di pochi minuti. Una bandiera rossa fissata su una lunga asta per segnalare il punto d’inizio della prima corda doppia sporge da un cumulo di neve portata dal vento. Scavando febbrilmente con le mani guantate ritroviamo la corda irrigidita dal gelo e ci prepariamo a scendere, uno alla volta, nel vuoto e nella nebbia, separati gli uni dagli altri da una trentina di metri per sollecitare al minimo gli ancoraggi. Il turbinio di cristalli di ghiaccio costringe a volgere il capo controvento, mentre il fiato appanna gli occhiali al punto che per vedere qualche cosa sono costretto a togliermeli, rischiando un’oftalmia a causa della fortissima luce diffusa. All’improvviso, mentre sto calandomi sulla corda fissa, mi sento sprofondare sino al petto all’interno di un crepaccio terminale il cui orlo è bordato da una chiostra di lucenti stalattiti di ghiaccio che ricordano fauci spalancate. Sospeso nel vuoto, scalcio all’infuori con troppa violenza e il peso dello zaino mi sbilancia all’indietro, facendomi ruotare attorno al baricentro all’altezza della vita. Mi ritrovo appeso a testa in giù, il cuore fuori giri, mentre il respiro si fa affannoso e mi sembra di soffocare. Calma! Ci vuole calma! Immobile nella scomoda posizione esalo un gran respiro, poi un altro, quindi, con lentezza infinita, mi giro su me stesso aiutandomi con i guanti imbottiti per scivolare sul ghiaccio. Pian piano mi rimetto in assetto, stando bene attento a non mollare la presa sul capo di corda che esce dal discensore, pena una caduta incontrollata. Alla base del salto mi siedo sulla neve fresca e ansimo per qualche minuto, cercando di recuperare il fiato. Sin qui, tutto bene. Ecco il punto dove la corda fissa è spezzata. Inizio a scendere con cautela lungo un ripido pendio innevato che offre scarsissima possibilità di fare o ricevere assicurazione, a causa dell’abbondante strato di neve inconsistente che ricopre il ghiaccio compatto sottostante. Non c’è tempo da perdere: la neve continua a cadere, alzando il pericolo di slavine. Aspetto Giorgio, che sta scendendo con fatica. In questo tratto è inutile legarsi perché una caduta non può essere arrestata e significherebbe il disastro per entrambi. Scendiamo così, cercando di non perdere contatto tra la nebbia che ci volteggia intorno, ora aprendosi ora chiudendosi sino a confondere la percezione della profondità. Quando il pendio si fa troppo ripido, mi giro faccia a monte e comincio a scendere nel nulla. Ho paura di perdere la traccia, di cadere in un crepaccio, d’imbattermi in seracchi insuperabili, d’innescare io stesso una valanga e, soprattutto, provo il brivido di perdere l’appoggio, di sentir cedere all’improvviso quel centimetro quadrato di ghiaccio al quale è appesa la mia vita e precipitare inarrestabile nell'abisso. L’abisso è una tale tentazione. Ma c’è una lezione in ogni tentazione e la paura non riesce a scalfire la concentrazione. Scendo sicuro, imprimendo ad ogni passo un solo forte colpo in modo che le due punte frontali del rampone possano conficcarsi al massimo nel pendio ghiacciato. Dopo aver trasferito il peso a valle, pianto la piccozza più in basso, più per mantenere l’equilibrio che per fare sicura, quindi abbasso l’altra gamba e con un colpo secco conficco il rampone nel pendio. Così, in discesa, per un centinaio di metri, sino a raggiungere il traverso che io stesso avevo attrezzato tre giorni prima, interamente concentrato sul movimento. Sul movimento per non pensare. Non pensando ad altro che a scendere bene, senza scompormi, senza stancare troppo i muscoli delle gambe e dei polpacci che mi urlano dentro la loro silenziosa protesta. Poi, lentamente, i vortici di nevischio si diradano, il pendio si addolcisce, i buchi si fanno più visibili. Avvistiamo il campo 2. Pure Marco ci ha visti e ci viene incontro negli ultimi 100 metri. Un gesto forse inutile, ma che apprezzo più degli auguri di bentornato. E’ la salvezza, dolcissima e amara insieme.
Nonostante i momenti drammatici e la forzata rinuncia alla vetta è stata comunque per tutti i membri della spedizione un’avventura straordinaria oltre che una preziosa esperienza umana. A detta di numerosi esperti, l’estate 2001 è stata, proprio in Karakorum, la peggiore stagione a memoria d'uomo. Delle 15 spedizioni che hanno tentato il Gasherbrum II solo pochissimi alpinisti sono riusciti ad arrivare in vetta,quasi tutti prima della metà di luglio, correndo grossi rischi. Ci sono stati purtroppo anche dei morti, come lo sfortunato scalatore belga precipitato per cinquecento metri nel tratto che va dal campo 2 al campo 1, disgrazia avvenuta il medesimo giorno in cui la nostra spedizione ha deciso, a malincuore e non senza rimpianti, di rinunciare alla vetta ed iniziare il ritorno. Che ci auguriamo sarà per alcuni di noi solo una pausa in attesa di riprovarci, l’autunno prossimo, con il Cho Oyu.
Luglio 2001