“Le montagne non sono stadi dove placo la mia ambizione al successo.
Sono le cattedrali dove pratico la mia religione.”
Anatolij Boukreev
Erano i primi anni ottanta, quelli della nascita dell’alpinismo spettacolo. Fu allora che l’eccentrico milionario statunitense Richard Daniel (Dick) Bass concepì l’idea di scalare la montagna più alta di ciascun continente. Sette montagne, tante quante i continenti, contando le due Americhe e l’Antartide.
Sette sorelle come le Pleiadi: Everest, Aconcagua, Denali, Kilimanjaro, Elbrus, Vinson e Kosciuszko (o piramide Carstensz, come vedremo). Numero potente, il sette, evocativo e magico. Sette i chakra, le note musicali, le meraviglie del mondo antico, sette le virtù come i peccati capitali, senza tralasciare i nani di Biancaneve o gli Horcrux di Voldemort. Il problema di salire tutte queste montagne era e resta tanto di natura logistico finanziaria quanto alpinistico. La sfida iniziale comportava anche il superamento di ostacoli pratici non trascurabili: il Caucaso sovietico stava oltrecortina, le spedizioni commerciali sull'Everest ancora non esistevano, l'interno del continente antartico era inaccessibile per chiunque tranne che pochi militari o ricercatori. Il Denali era una montagna remota e difficile, affrontata per lo più da alpinisti esperti, mentre per l'Aconcagua, il Kilimanjaro e il Kosciuszko si trattava prevalentemente di un ostacolo economico. Dopo parecchi tentativi, fallimenti e la spesa di una montagna di dollari, il “dilettante” Bass riuscì a completare, primo al mondo, la sfida, concludendo le Seven Summits con la salita del monte Kosciuszko, in Australia. Era il 1985. Nel frattempo, il gotha dell’alpinismo non era rimasto a guardare. Attratti dalla visibilità planetaria che il successo poteva conferire, alcuni grandi abbracciarono l’idea di questa particolare forma di alpinismo seriale, definendola sì un gioco, ma con la consapevolezza che le ingenti spese sarebbero state comunque coperte dai propri sponsor. Nell’epoca d’oro della “corsa alla vetta” quello che contava era arrivare primi e in questi casi il denaro diventava più una commodity che un serio ostacolo. Fu così che le sette cime diventarono una competizione globale. Una rivista si offrì di sponsorizzare l’alpinista e fotografo canadese Patrick Morrow con centinaia di migliaia di dollari per giungere primo a una variante della lista originale. Nel frattempo, infatti, in sostituzione del monte Kosciuszko, considerato troppo facile e nei fatti già “bruciato” dal successo di Bass, l’altoatesino Reinhold Messner aveva introdotto una variante alla lista originale che includeva la salita alla Piramide Carstensz o Puncak Jaya, 4884 m, la più alta vetta della Nuova Guinea. La motivazione fu che la Carstensz rappresenta il punto più alto dell'intera Oceania, e non solo dell'Australia continentale. Ad ogni modo, nel maggio del 1986, fu Morrow stesso, accogliendo il suggerimento di Messner, a salire per primo le Sette Cime con la Carstensz completando l'impresa con sette mesi di anticipo. All’epoca, sarebbe stato difficile immaginare che, nei vent’anni successivi, questa sfida sarebbe stata raccolta da centinaia di alpinisti provenienti da ogni parte del mondo, in primo luogo americani, ma anche europei e giapponesi. Il tratto distintivo della nuova leva di sfidanti era di non essere più costituita solo da professionisti e di non essere sponsorizzati. Nell’arco di una generazione l’esclusivo terreno di gioco riservato ai cenacoli dell’alpinismo si trovò invaso da un numero sempre crescente di dilettanti che potremmo definire, con Baricco, i “nuovi barbari” dell’Alpinismo. Non più personaggi che facevano della corsa alla vetta il loro mestiere ma gente comune come me, artigiani della montagna desiderosi di ripetere a loro volta quelle salite che, da ragazzi, li avevano fatti sognare.
Oggi, trascorso più di un ventennio, l’approccio alle Seven Summits è radicalmente cambiato: logistica e trasporti sono ormai ben collaudati. I costi, seppur elevati, sono diventati accessibili agli alpinisti non professionisti e non sponsorizzati, intendendo con questo persone che per vivere svolgono un'attività estranea al mondo della montagna. Per costoro l'alpinismo rappresenta un hobby del tempo libero, una passione a cui dedicarsi anche a prezzo d’importanti sacrifici. La definizione, forse un po’ snob, di turisti della montagna non ha impedito, almeno all’estero, la crescita costante dei seven summiters, sotto forma di “consumatori” di un prodotto di lusso offerto in pacchetti preconfezionati da prestigiose agenzie internazionali di alpinismo e avventura. I successi hanno superato, nel mondo, il numero di duecento nel maggio del 2007. Stranamente in Italia, dopo Messner, si è verificata una stasi durata più di tre lustri. Occorre infatti attendere il 2003 per la prima ripetizione delle Seven Summits (nella variante Kosciuszko) da parte di un altro italiano, cui ha fatto seguito, nel 2006, il sottoscritto. Questa particolare incarnazione di “turismo dell’avventura”, riesce a spostare ogni anno migliaia di appassionati, provenienti da ogni angolo del globo. I grandi numeri hanno contribuito alla nascita di un mercato che, a propria volta, promuove sempre di più la sfida costituita dalle Seven Summits. Una manciata di agenzie specializzate promettono la riuscita dell’impresa in pochi anni partendo praticamente da zero, sebbene a costi non esattamente popolari. E’ il mountain business, con tutto il suo seguito di spedizioni commerciali volte allo sfruttamento della montagna, ma anche in grado di offrire lavoro e possibilità di sviluppo alle popolazioni locali. Nell’intraprendere questa avventura è però ancora possibile scegliere, come ho cercato di fare, una via alternativa sia alle spedizioni commerciali che al professionismo. Non per pregiudizio o per snobismo quanto per il piacere di muoversi autonomamente, in modo pulito, by fair means, organizzando e realizzando in proprio, da solo o accompagnato da pochi amici, tutte le ascensioni. L’attrattiva delle sette cime non è stata affatto scalfita dal tempo, se la si interpreta come il gioco dell'alpinismo coniugato con la passione per i viaggi e la curiosità nei confronti del mondo. Perduta ormai da decenni la valenza d’impresa alpinistica assoluta, è rimasta intatta la seduzione del confronto personale con ambienti belli e impegnativi, che possono portare al risultato di migliorare le proprie conoscenze e performance. L’accento si è spostato dal piano tecnico a quello esplorativo e naturalistico e, in alcuni casi, anche a quello commerciale. Nel nuovo millennio, affrontare la salita della cima più alta di ciascun continente ha sempre meno a che vedere con la conquista ma al contrario costituisce un buon modo per conoscere il mondo attraverso le sue montagne, altrettante finestre spalancate su ciascun continente per chi ha occhi per vedere non solo le vette, ma anche ciò che ci sta intorno.
Ciascuna montagna possiede una personalità ben distinta, un’aura che riflette l’essenza del paesaggio
e del paese in cui sorge. Così il Kilimanjaro riassume bene l’Africa: la natura della montagna impone una rapida salita, da zero a seimilametri in quattro o cinque giorni, violenta, senza mezze misure com’è l’Africa stessa. Uccelli, scimmie e piante esotiche popolano gli umidi versanti e sotto il manto smeraldino della foresta pluviale tocca agli umili portatori chagga farsi carico degli zaini delle migliaia di turisti che ogni anno affrontano la salita del vulcano, in cambio di un compenso di pochi dollari al giorno. Il Kilimanjaro, etimologicamente
“montagna splendente” per via dei ghiacci eterni che ne ricoprono la cima, è il simbolo di un continente in rapida trasformazione, sotto la spinta dell’inarrestabile crescita umana e dei cambiamenti climatici. Trascorsi cento anni dalla prima conquista da parte di un europeo, molto è cambiato: i gorilla di montagna, gli scimpanzè, i leopardi, i bufali e le antilopi che popolavano le pendici sono stati sterminati, alberi secolari sono stati abbattuti, numerosi villaggi con missioni cattoliche e protestanti sono sorti nelle zone più basse, con un incremento demografico che non conosce tregua. I glaciologi stimano che, tra meno di venti anni, i ghiacci perenni che incappucciano il bordo del cratere sommitale, residuo dell’ultima glaciazione, saranno scomparsi per sempre.
L’Asia, maestosa e indecifrabile, è il trono della Dea Madre, il Chomolungma, in occidente meglio noto come Everest. Negli ultimi anni, il numero di ascensioni per una delle due “vie normali”, le creste sud e nord-es, ha conosciuto un’impennata grazie alle spedizioni commerciali e all’uso massiccio di portatori d’alta quota. Dai cento scalatori annui verso la fine del XX secolo si è giunti a quasi cinquecento nella
sola estate 2007, per il 90% appartenenti a spedizioni commerciali che fanno abbondante uso di ossigeno supplementare. Nel 2008, anno di fastose celebrazioni olimpiche a cura dagli organizzatori cinesi, si prevedono numeri ancor più elevati, tanto da far temere rischi d’ingorgo sulle due creste principali. Nonostante tutto questo, la “Dea Madre della Terra” resta una regina, a cui bisogna chiedere il permesso prima di salire. E c’è sempre un prezzo da pagare. I corpi congelati, che costeggiano la via oltre l’ultimo campo sulla cresta nord testimoniano fino a che punto il conto possa essere salato. Sono i cadaveri dell’avventura. Oltre gli ottomila metri, (là dove un normale elicottero non può salire), rimanere in vita richiede impegno e vigilanza costante e la sopravvivenza si misura in ore. Otto anni fa la montagna ha restituito intatto al mondo George Mallory.
A faccia in giù, le braccia larghe. Era scomparso sulla cresta nordest nel 1924, assieme a Andrew Irvine, ancora disperso. Mallory, alla domanda sul perché si recasse a scalare l’Everest, rispose con la celebre frase “Perché è là”. L’Everest, con le sue temperature da freezer, può conservare, ma non fa sconti agli scalatori incauti o sfortunati. Nei primi mesi del 2004, gli storici pignoli dei vizi umani riportavano almeno 35 corpi abbandonati oltre gli 8400 m lungo i pendii e sulla cresta del versante tibetano: alla fine della stagione alpinistica se ne erano aggiunti altri sei, tre dei quali membri della spedizione organizzata dal Club Alpino dell’Università sudcoreana di Keimyong per celebrare i 50 anni dalla fondazione. Erano partiti in sette, accompagnati da tre sherpa d’alta quota. Benché al campo avanzato le nostre tende fossero vicine, non avevo avuto modo di conoscerli se non di vista. Formavano un gruppo chiuso e riservato. In oltre un mese di vicinanza, si era instaurato un rapporto di amicizia più con i loro sherpa, spesso ospiti della nostra mensa, che con loro.
A mezzanotte del 18 maggio 2004, Park Mu-taek, il capo spedizione sudcoreano assieme al giovane compagno Jang Min e lo sherpa Lhakpa Gelu si svegliarono nell’ultimo campo della cresta nord, per iniziare i lunghi preparativi in vista del tratto finale della salita. Occorreva sciogliere la neve, riempire i thermos, fare colazione e vestirsi. Poi si misero in marcia. L’alba diede il buongiorno al gruppetto che caparbiamente seguitava a salire nonostante Jang apparisse sempre più stanco. Perché decisero di proseguire, non si può spiegare: sull’Everest non ci sono risposte, soltanto scelte. Non che fossero inesperti. Park era uno dei migliori scalatori sudcoreani. Era già salito sull’Everest nel 2002 e aveva al suo attivo il K2 e altri quattro ottomila. Jang, all’opposto, era un giovane di ventotto anni, non molto esperto ma motivato e allenato. Del trio, solo Lhakpa Sherpa aveva le idee chiare: se non avesse raggiunto determinati luoghi a degli orari prestabiliti, sarebbe tornato indietro. Gli sherpa sono in genere prudenti e si occupano del sostentamento della famiglia: il loro compito è guidare i clienti, non fare gli eroi. Temono l’“Effetto Everest”, quella pericolosa distorsione di giudizio che si sperimenta quando non si vuole rinunciare alla vetta “Perchè è là”. Quando sembra essere ormai a portata di mano. Park non la pensava esattamente così. Forse riteneva di avere margine sufficiente, oppure temeva che una ritirata troppo precipitosa potesse essere interpretata dagli altri compagni di spedizione come una mancanza di ardimento. Valori quali tenacia e perseveranza, sino all’estremo sacrificio di sé, hanno un peso determinante nella mentalità orientale e coreana in particolare. Ad ogni modo, quando i due alpinisti giunsero in vetta verso le dieci del mattino, preceduti dal loro sherpa, poco lasciava presagire quanto vicini fossero al disastro. Marco Tossutti, della nostra spedizione, arrivò in punta poco dopo di loro, e li ha descritti esultanti, come contagiati da un’innaturale euforia. Park si era tolto gli occhiali e, in preda a un’incontenibile gioia, non smetteva di filmare, fotografare e abbracciare il compagno che, visibilmente esausto, se ne stava accovacciato per terra. Nonostante l’invito di Marco a scendere insieme, Jang rispose che al suo compagno Park dolevano gli occhi e che si sarebbero fermati per un po’. Poche ore più tardi, Baek Joon-ho, vice capo della spedizione coreana che si trovava anch’egli all’ultimo campo, sempre più in ansia per la sorte dei due compagni, decise di tentare la salita accompagnato dal sirdar Nuri Chiri, nella speranza di soccorrere i suoi due compagni. Dal momento in cui Marco li aveva visti erano ormai parecchie ore, periodo nel quale era probabile avessero esaurito le residue scorte di ossigeno. Quella stessa notte anche io ero partito dall’ultimo campo, diretto alla vetta, ma il coreano e il suo sirdar salivano troppo velocemente per me, che procedevo più lentamente a causa del malfunzionamento del mio erogatore che mi forniva ossigeno al minimo. Così li ho persi subito di vista.
Purtroppo, il tentativo di salvataggio, generoso quanto disperato, si risolse in una nuova tragedia. Baek, salito troppo velocemente, si sentì male nei pressi della vetta, dove si era accasciato incapace di proseguire o di scendere. A quella quota, il terreno ripido, la stanchezza e il freddo assorbono tutte le energie. In tali condizioni è impossibile sorreggere un carico pesante, come un compagno che non riesce più a reggersi in piedi. Continuando la mia salita, ho incontrato il sirdar Nuri mentre scendeva a gran velocità dal nevaio sommitale, senza bombole. All’oscuro di tutto, l’ho fermato per salutarlo e congratularmi. Per tutta risposta, mi disse di aver abbandonato Baek, lasciandogli anche il proprio ossigeno perché il coreano non riusciva più a stare in piedi. Aggiunse di non poter fare altro per lui che scendere il più rapidamente possibile al campo tre per cercare soccorsi. Il giorno seguente, alle sette del mattino, Adriano, l’ultimo componente della nostra spedizione a raggiungere la vetta, ha raccontato di essersi imbattuto in un corpo raggomitolato, già per metà coperto dalla neve, appeso alla corda fissa del ripido traverso roccioso appena sotto alla vetta. Il mattino precedente, quando ero passato in quel tratto, quel corpo ancora non c’era. È assai probabile si trattasse dello sfortunato leader dei coreani. Quel giorno, quel lunghissimo giorno, si chiuse con una bufera, durante la quale Adriano riuscì faticosamente a rientrare all’ultimo campo solo verso le sedici. A riprova di come un recupero dalla cresta nord sia un'impresa tutt’altro che facile, i corpi dei primi due coreani non furono mai localizzati, nonostante ripetute ricerche durate oltre un mese. Solo a fine maggio dell’anno successivo, alcuni sherpa di una spedizione coreana di soccorso sono riusciti a raggiungere il corpo rimasto appeso alle corde sotto alla vetta, nel punto dove lo aveva visto Adriano, e a liberalo dalla morsa di ghiaccio in cui era imprigionato, tumulandolo poco distante. Ed è lì che ora riposa.
Il Sud America ti riceve con paesaggi sconfinati e nude montagne policrome sovrastate da cieli di turchese, dove la voce si perde e le rocce raccontano di un tempo che non conosce la fretta.
Gauchos a cavallo guidano i muli lungo i sentieri che portano ai campi base di Plaza de Mulas o di Plaza Argentina ai piedi dell’Aconcagua, la “sentinella di pietra” che delimitava i confini meridionali dell’impero Inca. Le Ande, osservate da questo punto privilegiato, appaiono come una sottile e tormentata fascia bianca che separa la terra dal cielo. Dalla cumbre la vista è libera di spaziare sull'orizzonte, velato da pallide foschie azzurrine che virano al blu cupo dello zenit. La vetta sembra attirare le nubi, che risalgono rapide e lievi scavalcando impalpabili le creste e gl'impervi versanti della montagna. Lontano, in direzione nord, spicca una cima appuntita dai fianchi glaciali: è il Cerro Mercedario, alto 6770 metri. A sudest, quasi alla stessa altezza, si alza la mole massiccia e nerastra del vulcano Tupungato. In direzione sudovest l’affilata cresta del Guanaco, che unisce la cima dell'Aconcagua con la lievemente più bassa anticima, scivola nell’abisso della parete sud tra seracchi sospesi e pareti di roccia friabile. Muri di roccia e di ghiaccio precipitano strapiombanti, fondendosi nei ghiaioni duemila e cinquecento metri più in basso alla base della parete.
Anche visto da sotto, l'Aconcagua non appare banale: presenta itinerari di tutto rispetto, alcuni di difficoltà estrema, come la diretta sulla parete sud. Per contro, la via “normale” di salita da Plaza de Mulas ha deluso più di uno scalatore. Non si attraversa nessun ghiacciaio né occorre affrontare pareti strapiombanti. In effetti, dal punto di vista tecnico, la salita della via normale non è particolarmente interessante. Ma i giudizi negativi, per la maggior parte frutto di sconfitte, nascondono il fatto che la principale sfida costituita dalla salita della Sentinella di Pietra è data dalla quota, dal freddo intenso, dalle tempeste improvvise e violente che possono trasformare l'ascensione in una crudele ordalia. Per me, come per molti altri, l’Aconcagua è stato il primo approccio alle grandi montagne e alle alte quote. L’inizio del mio personalissimo cammino nell’affascinante specialità dell’alpinismo d’alta quota.
Il Nord America si identifica perfettamente con gli Stati Uniti: il Denali pretende un’ascesa irreggimentata, tra bandierine di riconoscimento e sacchetti preconfezionati biodegradabili per sbarazzarsi dei rifiuti organici. Qui nulla deve essere lasciato alla fantasia e all’improvvisazione. La salita impone l’autonomia totale per un periodo di almeno due settimane, in un paesaggio artico privo di ogni presenza umana o animale. Secondo recenti statistiche, la percentuale di successo si aggira intorno al 50% degli scalatori che tentano la salita, ma questa cifra non dice che un terzo di coloro che raggiungono la cima sono guide in compagnia di clienti, né tiene conto del fatto che molti alpinisti, quando si tratta di dichiarare il punto più alto raggiunto, non guardano troppo per il sottile tra la cima vera e propria e la leggermente più bassa cresta sommitale. “Non fatevi ingannare dal bel tempo.
Se vedete una grossa nube lenticolare spuntare all’improvviso sul Foraker, girate i tacchi e datevela a gambe” ci ammoniva il ranger durante il briefing a Talkeetna, in quello che pareva essere solo una frase ad effetto volta ad intimorire gli ultimi arrivati. Ma, sul Denali, venti sino a 130 km/h in presenza di temperature di -30°C non sono infrequenti, anche d’estate, e non lasciano scampo. Meglio non dover fare mai la loro conoscenza, meglio scavare una buca nel ghiaccio e attendere. Il 25 maggio 2005 è stato il giorno più bello, l’unico possibile per la vetta dopo parecchi. Alle 16:45 abbiamo iniziato la discesa e, tanto per non smentire la sua pessima fama, il tempo è cambiato repentinamente. Il vento si è rafforzato proprio mentre giungevamo alle nostre tende al campo alto, ben riparate da blocchi di neve.
In seguito il maltempo ci ha sempre accompagnato durante i due giorni di ritorno verso il campo d’atterraggio, con bufera e whiteout, quasi che la montagna volesse farcela pagare per essercela cavata così a buon mercato. L’aereo che doveva riportarci a Talkeetna ha potuto decollare solo la mattina del 28, anticipando così di cinque giorni il rientro rispetto al programma iniziale. Tuffarsi nell’ultima wilderness d’America, per affrontare quattromila metri verticali contando esclusivamente sulle proprie forze, costituisce un’esperienza indimenticabile oltre che un buon test per le esperienze ancor più solitarie di traversata delle terre polari.
L’Europa non si è smentita: tratta, parlamenta, discute, proponendo di affrontare l’Elbrus dormendo in rifugi esistenti o diroccati, di salirlo a piedi o con il gatto delle nevi, di ricorrere alla funivia o in modo autarchico. Oltre a essere la più alta vetta d’Europa, l’Elbrus era e rimane la palestra privilegiata dell’alpinismo russo. Qui Anatolij Boukreev (il fortissimo alpinista kazako scomparso nel 1997 sull’Annapurna) si allenava, macinando primati di velocità. Il suo record di salita, dal rifugio Priut alla vetta orientale, in un’ora e 47 secondi è tuttora imbattuto.
Molto è cambiato dai tempi delle grandi competizioni del periodo sovietico, che vedevano il fior fiore degli alpinisti russi perfezionare qui i loro allenamenti cimentandosi in accese sfide di sky-running. Dalla caduta del Muro, anche per merito dell’effetto trainante costituito dalle sfida alle Seven Summits, i fianchi regolari dell’Elbrus hanno iniziato ad attrarre alpinisti e sciatori da ogni parte del mondo. Il motivo della crescente popolarità sta nell’accessibilità, nei costi contenuti uniti alle molteplici possibilità offerte agli sport di montagna. Gli alpinisti principianti trovano un terreno non troppo severo su cui muovere i primi passi in alta quota.
Gli scialpinisti hanno la possibilità di salire e scendere migliaia di metri di dislivello in giornata, mentre gli sciatori hanno a disposizione una stagione che dura oltre sei mesi l’anno. Ce n’è abbastanza anche per chi vuole sfidare condizioni ambientali estreme, in vista d’imprese extra-europee. Il mio obiettivo è stato più modestamente quello di coniugare una tranquilla gita alpinistica con la visita di un pezzetto della Santa Madre Russia. La salita dal bivacco Diesel, discesa inclusa, ha richiesto undici ore, comprese le soste. Niente male per chi ha scelto di rinunciare all’aiuto del gatto delle nevi pur di coprire per intero a piedi anche il tratto iniziale che porta alle rocce Pastukhov, preferendo le gambe alle lusinghe di ciò che è facile.
L’Antartide, o il nulla assoluto, totalmente apolide e assolutamente di ghiaccio, è un viaggio all’interno di sé stessi, la misura dell’infinito. Le grandi catene montuose che attraversano il continente australe sono in gran parte inesplorate. E già questo basta a renderlo unico, in un mondo sempre più interconnesso e sovrappopolato. Nessuno si è mai recato nella maggior parte delle valli della catena della Sentinella, nessun uomo ha mai messo piede su molte delle montagne della catena transantartica. Grazie alle basi semipermanenti, da pochi anni alcuni siti del continente bianco sono diventati accessibili con un equipaggiamento adatto. Ogni altro spazio della terra è stato abitato, o
perlomeno attraversato, sin dalla preistoria. Tutti, tranne gli aridi altopiani antartici. Deserti bianchi dove l’aria è più secca di quella del Sahara. Orizzonti di ghiaccio di fronte alla cui vastità non si può fare a meno di provare un senso di vertigine, una sensazione adatta a un luogo non a misura d’uomo. Forse, a nessuno dovrebbe essere consentito di venire qui. Forse, uno dei motivi per cui l’Antartide è un santuario naturale, un monumento alla Natura grande quanto un continente, è perché degli uomini sono arrivati e hanno riportato indietro storie di bellezza e meraviglia. Forse, se non è stato ancora rovinato o sfruttato a fini commerciali, è perché risulta troppo costoso e difficile. Comunque sia, in
nessun altro paese al mondo le leggi impongono di organizzarsi in modo che siano integralmente recuperati i propri rifiuti, solidi e liquidi, compresa l’acqua di risciacquo delle stoviglie, perché in nessuno altro posto quanto questo l’ecosistema è così fragile e qualsiasi alterazione destinata a restare. È un obbligo, ma anche una grande responsabilità, perché tutti devono avere la possibilità di venire e ritrovare un territorio pressoché incontaminato. Ma vale davvero la pena, a mio avviso, fare qualche sacrificio, non solo economico, per avere il privilegio di ammirare e raccontare un angolo di mondo che esorbita dai parametri dell’ordinaria esistenza. Una bellezza terribile e senza tempo, pervasa da un
fascino che toglie il respiro, dal brivido di sentirsi fragili in un ambiente ostile eppure preparati nell’affrontarlo, dalla seduzione della fisicità che sta alla base di ogni avventura. Quando le parole diventano inadeguate, non ci restano che le azioni: “le azioni degli uomini sono le migliori interpreti dei loro pensieri” scriveva John Locke, filosofo del ‘600. Viaggiare, esplorare lo spazio, è praticare l'arte della "lettura visiva del mondo" come sosteneva Calvino, senza
necessariamente avere la pretesa di comprenderlo, muti spettatori della sua varietà e bellezza. La sommità del monte Vinson, il punto più alto del continente bianco, è segnalato da una corta asta di alluminio che è lì da vent’anni. Ci sono arrivato intorno alle tre del pomeriggio, ora di Punta Arenas, ovvero il mezzogiorno locale basandosi sul meridiano. La cima regala una
vista incomparabile. L’orizzonte meridionale è dominato dalla calotta dell’Antartide Occidentale, un oceano di ghiaccio che si alza gradualmente sino a fondersi col cielo in un candore accecante. Tutto intorno sorgono montagne inviolate. Il versante opposto precipita nel ghiacciaio Dater, che si getta più in basso nella corrente glaciale di Rutford, un fiume di ghiaccio a scorrimento veloce (più di un metro al giorno) che alimenta il tavolato di Filchner Ronne, l’enorme barriera madre di tutti i grandi iceberg.
Ma l’ora della discesa è giunta quasi subito, perché la nebbia si è alzata precludendo il paesaggio, mentre il vento rinforzava e la giornata si chiudeva nel whiteout quando fortunatamente mancavano solo poche centinaia di metri al campo due. Il giorno dopo il cielo è stato di nuovo sereno e mi sono goduto la discesa. Devo ammettere che sciare sui sastrugi con uno zaino da venti chili contenente i miei stessi rifiuti stivati negli appositi wag-bag non è stato esattamente il massimo del divertimento. Eppure, dopo appena due giorni, circondato dal relativo comfort di Patriot Hills, mentre attendevo l’Ilushin, mi ha preso un groppo alla gola. Sentivo già la mancanza di questa terra severa che forse non rivedrò più, la sua indifferente bellezza, le montagne che sorgono come cattedrali nel deserto, il suono del vento, l’ombra e la luce.
La minore delle Seven Summits sorge in Australia, il nuovissimo continente, e della giovinezza possiede le caratteristiche. Le forme morbide e tondeggianti ispirano una naturale simpatia che la bassa statura
non fa che accentuare. Vezzosa, ama cambiarsi spesso d’abito, e abbandona presto il bianco per passare al verde, alternando ai freddi colori invernali le calde tinte pastello dell’estate. Adora fiori e profumi e con l’arrivo della bella stagione ama ornarsi di fiori di campo, in preferenza margherite e ranuncoli. L’aria che la circonda odora di mirto selvatico. Delle sorelle maggiori non possiede né l’imponenza né la severità, ma a volte riesce ad essere dispettosa, inventandosi scherzi da fare agli ignari passanti, in particolare, scagliando loro contro nugoli di mosche. Non ho mai visto una cima così frequentata: per fare la foto vicino al punto trigonometrico di vetta ho dovuto fare la fila. Gli australiani sono orgogliosi
della loro vetta più alta e sentono irresistibile il suo richiamo. Un filo di tristezza, per una fine così ingloriosa di queste Seven Summits, a dire il vero, c’é. Ma è solo un filo, sottile sottile, che svanisce quando guardo la mia compagna di salita. Lei sì, che è raggiante! Felice per me, che ho raggiunto il mio sogno, contenta per lei, che ha fatto la sua prima (e ultima) delle Seven Summits. E forse è proprio questo il senso del Kosciuszko, perché ti permette di condividere quest’avventura con chi ti vuol bene, con chi è sempre rimasto a casa ad aspettare con il batticuore che tu tornassi.
La Nuova Guinea è un’isola di estremi, protesa nel nuovo millennio ma con radici ancora ben piantate nella preistoria. I papuani sono frammentati in centinaia di gruppi etnici, isolati dal territorio e da una babele di mille lingue. L’isola, nel suo complesso, contribuisce per quasi un quinto alla produzione aurifera mondiale, benché gli indigeni ne traggano beneficio solo in minima parte. Tra multinazionali
minerarie e polizie private, cercatori d’oro e missionari, conflitti tribali e rivendicazioni autonomiste la vita non è facile in questa terra di frontiera sospesa tra vecchi miti di antropofagia e moderni modelli consumistici. Da Sugapa inizia il tortuoso cammino (lungo una cinquantina di chilometri per settemila metri di dislivello a causa dei continui saliscendi), che porta alla catena di Dugunduguoo (o Sudirman Range), dove si erge la più alta montagna dell’Oceania. Dicono che la destinazione non sia tanto importante quanto il cammino che ad essa conduce. Se questo è vero, l’avvicinamento alla Piramide Carstensz, ne è la dimostrazione. Oggi, per accostarsi ai superbi picchi calcarei, non ci sono alternative al faticoso trekking attraverso la foresta pluviale. E’ stato vietato il transito sulla strada privata che unisce la cittadina mineraria di Tembagapura al pozzo della riserva d’oro e rame più grande
del mondo, la miniera di Grasberg. Dove sorgeva un monte, ora c’è una profonda cicatrice che chiunque può comodamente sbirciare dall’orbita con Google Earth. Estrarre oro fa male alla Terra: è una delle attività a più alta intensità energetica. La strada era usata come scorciatoia dagli organizzatori dell’ascensione alla cima. Il sito minerario si trova infatti a poche ore di cammino dal campo base della Carstensz, a 4200 metri di quota. Il collaudato sistema di allentare le maglie della sorveglianza con opportune mance nelle giuste tasche si è però inceppato nel marzo 2008. Probabilmente la PT Freeport-McMoran, multinazionale concessionaria a maggioranza statunitense nonché contribuente per il 2% al PIL indonesiano, ha deciso che gli alpinisti in transito nei loro precintisono solo seccatori ficcanaso e ha rafforzato la sorveglianza.
Beninteso, la Piramide Carstensz si può sempre comodamente raggiungere da Nabire in un paio d’ore d’elicottero (e ventiduemila verdoni) ma scegliere questa opzione è, a mio avviso, un po’ come chi va a fare sci-alpinismo col gatto delle nevi. In alternativa al trekking da Sugapa esiste un accesso dal villaggio di Ilaga. Si tratta di una settimana di cammino disagevole attraverso i territori abitati dai Dani. Alcune comitive pare siano state fatte oggetto di attacchi, determinando la chiusura dell’area al turismo per oltre un decennio. Ebbene sì, anche in questa remota porzione di mondo ci sono ribelli antigovernativi. Terroristi per alcuni, combattenti per la libertà secondo altri. In ogni caso, col pretesto degli autonomisti, l’accesso alla Carstensz è stato interdetto sino al 2005, con buona pace di quanti volevano completare le “Seven Summits” con questa variante. Dopo sette faticosi giorni di trekking, raggiunto il campo base, anziché dedicarmi al giorno di riposo come previsto, decido di salire in compagnia di due alpinisti spagnoli. Attendiamo sino alle quattro e mezzo del mattino la fine della
pioggia, poi lasciamo le tende e in un’ora raggiungiamo l’attacco seguendo alla luce delle lampade frontali un evidente sentiero. La salita avviene lungo un sistema di cenge e camini che solcano obliquamente il fianco della montagna. La superficie rocciosa è ruvida e scabra, dilavata dalla pioggia che ha scavato nel calcare profondi solchi e canne d’organo. L’arrampicata mi ferisce i polpastrelli e devo infilarmi i guanti di protezione. Trovo in parete abbondanti corde fisse ma non le uso se non per assicurarmi nei tratti verticali. Alle sette del mattino raggiungo la cresta. La visibilità è ottima. In lontananza ammiro il pozzo circolare della miniera e la strada che spiraleggia verso il fondo, percorsa da camion grandi come case che nella distanza assomigliano a formiche operose. Risalendo la cresta verso la vetta supero non senza fatica un profondo intaglio grazie ad una corda orizzontale a cui devo sospendermi. La chiamano “tirolina” ed è il passaggio chiave della via normale di salita.
L’esposizione e il panorama sono da cartolina. Dopo alcuni altri facili passaggi su roccia giungo sul punto più alto alle otto, subito seguito dai miei due compagni. Dalla vetta, volgendosi a sud, si ammira la pianura ricoperta dalla giungla. Laggiù, da qualche parte, a una sessantina di chilometri di distanza, sorge la cittadina di Timika, il nostro punto di partenza. Incredibilmente, sulla cresta sommitale c’è campo e così ci togliamo la soddisfazione di annunciare il successo con un normale telefonino Gsm. Facciamo appena in tempo a scattare alcune foto che le nubi salgono intorno a noi, lasciandoci nella nebbia. In poco più di due ore rientriamo al campo base, in tempo per il brunch. Il giorno dopo mi sento stranamente leggero. Sono felice per come sono andate le cose. Quella che avevo sottovalutato come una semplice passeggiata nella giungla si è invece rivelata un’autentica Avventura, per buona sorte a lieto fine.
Un vasto mondo ci aspetta, appena fuori dalla porta di casa. Un universo tutto da scoprire, poco importa che siano le più belle spiagge dei sette mari o le seconde cime più alte dei sette continenti. Posti magici, che sfidano l'immaginazione, di cui la maggior parte della gente ignora persino l'esistenza. Angoli di mondo fragili, non ancora addomesticati, dove occorre entrare con rispetto, quasi in punta di piedi. E ogni volta che ritorniamo da uno di questi luoghi, non saremo mai più gli stessi, perché una parte di noi resta là, almeno quanto loro entrano a far parte di noi.
Ho concluso felicemente il mio personalissimo viaggio sulle 7+1 cime il 16 novembre 2008 con l'ascensione della Piramide Carstensz, terzo italiano assoluto e attualmente l'unico, oltre a Reinhold Messner, ad aver salito sia la piramide Carstensz che il monte Kosciuszko (per le statistiche ufficiali si può consultare il sito in inglese: www.7summits.com).
Novembre 2008